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Dai primi di dicembre il rublo ha perso nei confronti di tutte le altre monete oltre il 15 per cento. Addirittura quasi il 17 per cento alla vigilia delle feste della natività. È il dato sorprendente che emerge dalle quotazioni fornite dalla Banca centrale russa, nel suo report giornaliero, che prende in considerazione il rapporto con ben 34 monete. Quelle dei Paesi con cui la Russia ha i principali rapporti di natura economica e finanziaria. Il range oscilla tra il 19,9 per cento nei confronti del fiorino ungherese e il 4,2 per cento del rublo della Bielorussia. Significativa la perdita di valore sia nei confronti dell’euro (17,7 per cento), sia del dollaro: 14,9 per cento. La caduta sistemica del valore del rublo nei confronti di tutte le altre monete di riferimento, ne dimostra l’intima debolezza e l’esaurirsi di una vecchia strategia. Quella che aveva obbligato i Paesi importatori di gas a pagare Gazprom non in dollari, come avveniva in precedenza, ma direttamente in rubli. Misura ch’era servita per far riprendere il rublo dopo la grande svalutazione dello scorso febbraio (inizio dell’”operazione militare speciale”) ma che ora sembra aver esaurito la sua originale spinta propulsiva.

Le bellicose dichiarazioni di Vladimir Putin di solo qualche giorno fa, in cui si inneggiava alla grande solidità dell’economia russa e alla crisi irreversibile dell’Occidente, ancora una volta, si sono dimostrate una grande bufala. Del resto era stata la stessa Ėl’vira Nabiullina, presidente della Banca centrale, a smentire quelle profezie. E una in particolare quella, secondo la quale, l’inflazione russa (12 per cento a novembre) era destinata a normalizzarsi rapidamente. Nulla di tutto ciò a quanto sembra. Ancora nel 2024 essa sarà superiore al 4 per cento. Se non di più. Nello scenario ipotizzato pesano, infatti, soprattutto le rigidità del mercato del lavoro. Che sono dovute essenzialmente a due fattori: uno contingente, l’altro strutturale. La militarizzazione della società, con il richiamo dei riservisti da spedire in Ucraina e la fuga all’estero di molti giovani per sfuggire alla coscrizione obbligatoria, ha ridotto il peso della forza lavoro disponibile. Proprio nel momento in cui – il dato strutturale – un maggior impiego di mano d’opera era indispensabile per far fronte, in chiave autarchica, al vuoto di produzione deciso dalle sanzioni dell’Occidente.

La maggiore rigidità del mercato del lavoro ha accresciuto la forza contrattuale degli occupati, consentendo loro di reagire all’aumento dei prezzi con maggiori richieste salariali. Si è così innescata quella rincorsa classica tra “prezzi e salari” che è il carburante tipico di ogni processo inflazionistico: destinato a durare. E a peggiorare a seguito della svalutazione del rublo. A sua volta fattore importante del drive inflazionistico. Per completezza si deve solo accennare al maggior deficit di bilancio, previsto intorno a 2 per cento del Pil. Putin ha cercato di volgere questo dato a proprio favore, osservando ch’esso è generalmente inferiore a quello dei principali Paesi dell’Ocse. Il che è indubbiamente vero. Ha solo trascurato di aggiungere che, per la prima volta, le finanze russe si troveranno in deficit, dopo un lungo periodo, durante il quale le royalties provenienti dal petrolio avevano consentito bilanci pubblici ben più allettanti.

Gli altri elementi del quadro economico-finanziario sono di rinforzo alle preoccupazioni della Banca centrale russa. Le riserve in valuta estera che dagli inizi del 2020 erano progressivamente aumentate, hanno subito una forte contrazione. Da 556 miliardi di dollari (gennaio 2020) avevano raggiunto, nel febbraio del 2022, i 643,1 miliardi di dollari. Con una crescita del 15,7 per cento. Salvo bruciare in pochi mesi – dal febbraio al novembre di quest’anno – tutto il guadagno realizzato nei 26 mesi precedenti. Perdite che sono state solo in parte recuperate nell’ultima parte dell’anno.

Appare pertanto sempre più evidente che mentre la Russia era in grado di sostenere un’”operazione militare speciale”, come fu battezzato il primo tentativo d’invasione, non può, invece, reggere ad una guerra che ormai dura da oltre 10 mesi. Finché si trattava di scaricare su quel “martoriato Paese”, com’è solito dire Papa Francesco, i fondi di magazzino del passato periodo di “guerra fredda” era come far pulizia in una soffitta polverosa. Ma esauriti quei vecchi ordigni di distruzione, era necessario acquistarne altri. Non essendo in grado l’industria bellica nazionale di produrne per proprio conto. L’esempio dei droni iraniani, una sorta di ordigno di distruzione a perdere, non particolarmente complesso dal punto di vista tecnologico, ne è la più emblematica dimostrazione.

Finora è stato il confronto militare a fare la differenza. Da una parte, un esercito di volontari, che combatte per la propria libertà, armato, seppure guardingamente da un Occidente che teme, anche giustamente, l’eventuale escalation del conflitto. Dall’altro un esercito invasore male armato e ancor meno motivato. Una strategia inconcludente. E una ferocia contro i civili che è solo segno di debolezza, destinata ad accentuare l’isolamento del Cremlino sia sul piano interno sia su quello internazionale. Come risulta evidente dagli stessi moniti cinesi e dall’aperta dissociazione dell’India. Nel tentativo di rovesciare a proprio favore una congiuntura negativa, Putin, inoltre, è sempre più costretto a ricorrere a una propaganda bugiarda, di cui, tuttavia, è sempre più facile coglierne l’inconsistenza.

Con ogni probabilità, più che un Afghanistan, sarà quindi un altro Vietnam, seppure a parti rovesciate. Dove non sono ammesse vittorie o sconfitte militari, ma solo politiche. E dove saranno diversi gli elementi che alla fine conteranno. Innanzitutto la determinazione delle forze combattenti, quindi il livello del loro equipaggiamento dal punto di vista tecnologico, poi il sistema di alleanze che ciascuno sarà in grado di costruire a sostegno delle proprie posizioni. Ma soprattutto il retroterra economico e finanziario dei due belligeranti. Problema ampiamente sottovalutato da Vladimir Putin, con le sue intemerate contro la presunta decadenza dell’Occidente: destinato ad essere spazzato via dai nuovi protagonisti – Russia e Cina in testa – della geopolitica del domani. Tesi che hanno accresciuto la determinazione dei supporter di Zelensky, sempre più convinti che la difesa dell’Ucraina è difesa di un avamposto di tutto l’Occidente.

Quali sono allora le reali forze in campo? L’unico atout del Cremlino è rappresentato dal monopolio di alcune materie prime, a partire dall’energia. Nei primi mesi del conflitto, la potenza è stata massima. Nel primo trimestre dell’anno, l’attivo delle partite correnti dovrebbe essere stato pari, secondo le stime della Banca centrale, a 198,4 miliardi di dollari. Più di due volte e mezzo quello del 2021. Conseguenza, appunto, della trasformazione del gas in una political commodity e di un prezzo del petrolio, molto meno generoso, ma comunque redditizio. Soprattutto il gas è stato quindi il coltello puntato alla gola dei Paesi consumatori. I quali sono stati costretti, nel breve periodo, a subire il ricatto; salvo tentare di diversificare le fonti per gli anni a venire. Per l’Italia, tanto per fare un esempio, si è passati da una dipendenza del 40 per cento a poco più della metà nella media annua, con terminale ottobre. Ma nel corso dell’anno questa percentuale è scesa dal 36 per cento del marzo al 6 per cento dell’ottobre.

In prospettiva, quella russa appare, quindi, essere una vittoria di Pirro. Dal massimo vantaggio del primo trimestre (3,1 volte il saldo commerciale del corrispondente periodo del 2021), si è progressivamente scesi: 2,5 nel secondo trimestre e 1,4 nel terzo. Risultati, in quest’ultimo caso, ancora positivi ma solo grazie ad una forte compressione delle importazioni che, in tutto il periodo considerato, sono risultate essere pari a 245 miliardi di dollari, contro i 271 dell’anno precedente. Con una differenza di 26 miliardi: primo effetto visibile delle sanzioni decise contro il Cremlino. Un vincolo destinato a crescere ulteriormente, grazie soprattutto alle nuove regole del price cap sul gas. Decisione che ha fatto letteralmente imbestialire Putin, al punto da spingerlo a firmare il decreto che proibisce a Gazprom di fare contratti con quei Paesi che vorrebbero imporre un prezzo massimo alle forniture di gas.

Il price cap inciderà, infatti, sul fronte delle esportazioni, riducendo i relativi incassi. Da questo punto di vista le minacce di Putin lasciano il tempo che trovano. Annullando i relativi contratti non farà altro che peggiorare le condizioni della sua bilancia commerciale che fin da ora, seppure in prospettiva, evidenzia qualche elemento di preoccupazione. Del calo delle riserve valutarie si è già detto in precedenza. Si deve solo aggiungere che la posizione patrimoniale netta – vale a dire la differenza tra crediti e debiti nei confronti dell’estero – sebbene positiva, mostra valori sistematicamente inferiori a quelle delle riserve. Il che sta ad indicare un eccesso di debiti, destinati a ridurre ulteriormente il valore effettivo delle riserve possedute. Elementi, quindi, da non trascurare, specie se il conflitto, almeno come sembra, fosse destinato a durare.

 

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