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Un anno che se ne va e un altro che comincia. Per la Cina non ci sarà molta differenza, se il metro di misura è l’economia. In questo 2022, Formiche.net ha raccontato spesso e volentieri il progressivo collasso di parte del tessuto industriale e sociale cinese. Un settore, il mattone, che vale il 30% del Pil finito letteralmente in uno stato comatoso permanente, nonostante gli ingenti prestiti del governo. E poi una strategia di lotta al Covid a dir poco fallimentare. Tutto, drammaticamente legato a doppio filo, con il risultato che la la crescita cinese non tornerà ai livelli pre-pandemici prima di un semestre buono.

Anche perché, al netto delle insolvenze dei giganti dell’immobiliare e dell’emergenza sanitaria, Pechino ha forse contratto il virus più insidioso, letale. Quello della sfiducia. Sì, perché a leggere le previsioni da qui a quattro o cinque mesi al massimo di Bloomberg, sembra proprio che gli investitori siano piuttosto stufi di voler continuare a puntare i propri denari sul mercato obbligazionario cinese. In altre parole, i bond del Dragone non fanno poi così tanta gola. Per Pechino è un problema, perché ogni economia avanzata finanza parte della propria spesa pubblica con le emissioni di debito. Se questa posta dovesse venire meno, anche solo in parte, ecco che il governo dovrebbe essere pronto a metterci soldi di tasca propria, o stampando nuova moneta o aumentando le tasse.

Ora, secondo le aspettative degli analisti interpellati da Bloomberg, le previsioni su una ripresa della crescita cinese, grazie alla riduzione delle politiche zero Covid, stanno riducendo l’attrattiva del suo debito sovrano. Questo avviene in un momento in cui i fondi si stanno concentrando sulle obbligazioni dei Paesi in via di sviluppo, in seguito alla scommessa che la Federal Reserve possa terminare il suo ciclo di inasprimento monetario l’anno prossimo. Insomma, più che puntare sul debito cinese, fondi e risparmiatori sembra vogliano dedicarsi ad economie con più margini di crescita.

Secondo due grosse realtà finanziarie globali, Fidelity International e T. Rowe Price Group, ambedue contattate dall’agenzia americana, è improbabile che gli investitori invertano i massicci deflussi dalla Cina, già registrati nel 2022. Anche i persistenti rischi normativi e geopolitici impediranno il ritorno dei capitali, secondo Goldman Sachs e Jp Morgan: “dubito che il denaro rientri”, ha dichiarato Vikas Gupta, responsabile delle valute e dei mercati emergenti dell’Asia Pacifico presso Jp Morgan, riferendosi al mercato obbligazionario cinese.

“Il fatto è che i fondi globali hanno ridotto le loro partecipazioni in obbligazioni cinesi al ritmo più rapido mai registrato quest’anno, mentre il crollo dei Treasuries (i titoli di debito americani, ndr), spinto dai rialzi della Fed, ha finito con il surriscaldare i rendimenti statunitensi al di sopra di quelli cinesi. Il premio di rendimento di ben 253 punti base offerto dalle obbligazioni cinesi di riferimento rispetto alle omologhe statunitensi nel 2020 è scomparso per diventare uno sconto di circa 75 punti base”, ha chiarito Gupta.

Non è finita. Altri analisti affermano che la lenta fuga dal debito cinese è tutt’altro che conclusa. I gestori di fondi comuni di investimento nazionali, per esempio, hanno scaricato nel solo scorso novembre 1,3 trilioni di yuan (186 miliardi di dollari) di obbligazioni dal mercato  il mese scorso, il massimo mai registrato. Il deflusso è quasi il doppio delle vendite di obbligazioni cinesi da parte di fondi globali riportate in tutto il 2022. Questo vuol dire essenzialmente una cosa: che gli investitori domestici si fidano del debito cinese meno di quanto si fidino di quello estero.

 

(Photo by Leon Liu on Unsplash)

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