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L’assemblea dell’Interpol che si apre oggi, martedì 18 ottobre, a Nuova Delhi, tra i 195 membri che vi aderiscono con l’assenza di Taiwan, che continua a non essere inserito in un’altra delle limitazioni che lo status di non riconoscimento internazionale impone al Paese asiatico, impedendo però che il contributo di Taipei possa essere portato all’interno di questi organismi e creando delle falle del sistema di funzionamento negli organismi stessi.

Come ha spiegato Li Hsi-ho, commissario capo dell’Ufficio investigativo criminale della Repubblica di Cina in un documento preparato per raccontare come e quanto il contributo taiwanese all’Interpol sarebbe importante, “Taiwan desidera scambiare informazioni con i partner e assistere altri Paesi nell’allontanare le minacce provenienti dall’estero e combattere la criminalità organizzata all’interno dei loro confini”.

Nel testo, di cui Formiche.net ha ottenuto una copia, vengono indicati tre campi in cui Taipei può essere incisivo per le dinamiche operative dell’International Criminal Police Organization: le frodi cibernetiche, che anche grazie all’aumento delle attività online post pandemia stanno aumentando di numero e consistenza; l’uso di monete virtuali per il riciclaggio di denaro sporco; il controllo nel monitoraggio delle tratte di esseri umani.

“La criminalità transnazionale — scrive Li Hsi-ho — coinvolge spesso più Paesi e aree, il che può ostacolare le indagini. Nel mondo post-pandemico, le tattiche criminali continueranno ad evolversi e nuovi metodi emergeranno. Nell’indagare su nuove forme di attività criminale, l’esperienza ha un valore inestimabile. Taiwan è disposta a condividere la sua esperienza nella risoluzione dei crimini”.

Le ragioni che tengono Taiwan fuori da organizzazioni come l’Interpol (o l’Icao) sono del tutto politiche e collegate alla Cina. Dal 1971, Taipei ha perso il suo seggio alle Nazioni Unite come rappresentante ufficiale della Cina a favore di Pechino, e da quel momento non è stata mai re-introdotta all’interno delle Nazioni Unite, delle sue attività e di quelle delle agenzie/organizzazioni collegate.

Questo perché riconoscere la legittimità della presenza di Taiwan significherebbe riconoscere formalmente la Repubblica di Cina. Un’eventualità che Pechino valuta come inconcepibile, perché — come il leader Xi Jinping ha esposto chiaramente durante le sue due ore di intervento all’apertura del Congresso del Partito Comunista Cinese nei giorni scorsi — la Cina considera Taiwan una provincia ribelle da annettere. E per farlo non “rinuncerà mai” all’uso della forza, dovesse servire.

Creare una rappresentanza internazionale complica questi piani, perché permette a Taiwan di costruirsi dei legami con l’esterno che potrebbero essere complicati da rompere. Per questo Pechino vuole tenere l’isola fuori da certe organizzazioni e attività. Allo stesso tempo, facendo questo la tiene isolata, limitandone la capacità di lavorare sul piano multilaterale e internazionale.

La postura cinese crea delle limitazioni per le attività di queste organizzazioni, che invece fanno della possibilità di cooperazione e condivisione, più larga possibile teoricamente, buona parte della loro forza. Ma è sostanzialmente avallata dalla gran parte della Comunità internazionale perché altrimenti significherebbe far inquietare Pechino e rompere la One China policy — la politica del riconoscimento di una sola Cina — uno dei pilastri delle relazioni diplomatiche della Repubblica popolare.

Se da un lato Taiwan cerca di aumentare la propria rete di relazioni internazionali proponendo la propria efficienza e capacità, dall’altro la Cina vuole evitare modifiche allo status quo che non siano a proprio vantaggio. Anzi, come ha detto il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, “lo status quo non è più accettabile e Pechino è determinata a perseguire la riunificazione in tempi molto più rapidi”, e creare uno standing internazionale per Taiwan diventerà sempre più difficile. Perché potrebbe essere una delle linee di difesa che la Cina vuole sfondare.

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