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La Cina ha un problema, un problema chiamato debito. É la scoperta dell’acqua calda, visto che da anni il Dragone combatte una guerra senza quartiere contro finanze devastate da anni di prestiti, privati o pubblici che siano, troppo disinvolti e senza mai considerare la solvibilità dei destinatari. Il collasso del mattone è solo una parte di una crisi sistemica che viene da lontano e che negli ultimi anni ha incrociato prima la pandemia e poi l’inflazione, contribuendo al rallentamento, decisamente fuori programma per le autorità di Pechino, del Pil.

LA REPUBBLICA DEL DEBITO

Adesso c’è un dato, ancora più eclatante, che getta ben più di un’ombra sul futuro della crescita cinese. E cioè quello relativo al debito complessivo della Repubblica Popolare, espresso come percentuale del suo Prodotto interno lordo, che ha segnato un nuovo record alla fine di giugno, per effetto dei massicci prestiti sottoscritti dalle autorità locali per sostenere l’economia gravata dalle politiche zero Covid.

Cifre emerse dagli ultimi dati pubblicati dalla Banca dei regolamenti internazionali, secondo cui il credito al settore non finanziario cinese ha raggiunto la cifra di 51.870 miliardi di dollari, pari al 295% del Pil nazionale: il dato più alto mai registrato dal 1995 ad oggi. Praticamente, tutto cioè che non è corporate, dal municipio sperduto nella provincia cinese, alla grande metropoli, ha un debito verso banche e governo pari a quasi tre volte il Pil nazionale. Difficile tenere in piedi le finanze, a meno che lo Stato non continui a stampare moneta, come fatto fino ad oggi. Secondo il think tank cinese National Institution for Finance and Development, addirittura, da giugno ad oggi la percentuale ha registrato quasi certamente un ulteriore incremento, sino a toccare il 300%.

VERSO UNA MAXI INSOLVENZA?

Ma c’è di più. Nell’attesa di capire se e come il governo di Xi Jinping riuscirà a tenere in piedi la baracca, la frana rischia di materializzarsi nelle immense province cinesi. Le quali, negli anni prima e durante la pandemia, per finanziarsi hanno immesso sul mercato una immane quantità di obbligazioni, al fine di raccogliere la liquidità necessaria a sopravvivere e sostenere gli investimenti, molti dei quali legati al real estate.

Ora, come raccontato da Formiche.net, il prossimo anno andranno in scadenza bond per 15 mila miliardi di yuan, circa 2.100 miliardi di dollari. Praticamente il 40% dell’intero stock circolante dovrà essere rimborsato entro la fine del 2023. Problema, ad oggi gli enti locali cinesi, ovvero le immense province dell’ex Celeste Impero, non hanno cassa sufficiente per restituire il denaro prestato. Il che espone i governi a un potenziale default di dimensioni enormi.

Il tutto innescherà ovviamente un circolo vizioso. Per evitare il crack, i governi locali si vedranno costretti a vendere al mercato sempre più bond per finanziare i pagamenti delle cedole legati a quelli in scadenza, piuttosto che utilizzare tali risorse raccolte per finanziare nuove spese e, di conseguenza, la crescita degli investimenti potrebbe risentirne.

FITCH (NON) SALVA PECHINO

Ma allora, alla luce di tutto questo, che cosa c’è da aspettarsi dal fronte cinese? La Cina eviterà la recessione sia quest’anno (+3,5% il Pil) che il prossimo (+4,5%), con un’inflazione che rispetto ai Paesi occidentali sarà bassa (2,8% nel 2022 e 1,9% nel 2023). Ma la forza dell’economia del Dragone nell’ultimo periodo si è affievolita e le cause sembrano essere almeno tre. Questa almeno è la profezia di Fitch. Secondo l’agenzia di rating, è sempre colpa della strategia zero Covid, rivelatasi fallimentare ormai su tutti i fronti. Jian Shi Cortesi, investiment director Asia e Cina Equities di Gam, è ottimista sulla fine delle restrizioni più draconiane: “i lockdown generalizzati sono ora più rari. Si assiste invece a chiusure più mirate al fine di bilanciare le restrizioni Covid e l’impatto economico”.

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