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Ieri Facebook ha compiuto 19 anni, un’occasione per fare il punto su uno dei principali temi del terzo millennio, cioè i rapporti tra politica e nuove tecnologie. Nei primi due decenni del secolo le organizzazioni che hanno avuto le maggiori difficoltà a imboccare con continuità ed efficacia il processo di transizione digitale (non solo in Italia) sono i partiti e movimenti politici. Caduta l’illusione che la rivoluzione tecnologica potesse indurre di per sé una maggiore democratizzazione solo da poco tempo si è compreso che le nuove tecnologie digitali possono innescare invece un rilevante processo di concentrazione del potere.

In questa cornice, il primo aspetto da considerare – visto che prendiamo spunto da Facebook – è la profilazione dei cittadini elettori. Le banche piene zeppe di dati sono state, per esempio, al centro del noto caso Cambridge Analytica. L’estate scorsa, dopo anni di silenzio Mark Zuckerberg ha ammesso in sede processuale le responsabilità nella vicenda.

Ma la piattaforma più indagata a livello globale soprattutto per la raccolta di dati sensibili di adolescenti e minori è la cinese TikTok. A quattro anni di distanza – meglio tardi che mai – dai primi allarmi negli Stati Uniti, anche l’Unione Europea sembra finalmente aver messo nel mirino TikTok. L’uso fraudolento di banche dati contenenti la schedatura mirata (tramite centinaia di parametri) dei profili di decine di milioni di elettori consente ai partiti che ne fanno uso un marketing elettorale personalizzato e sleale con notevoli vantaggi.

Il secondo aspetto cruciale nel rapporto tra politica e nuove tecnologie riguarda la comunicazione via social. in Italia nei primi anni di attività del Movimento 5 Stelle sono state realizzate campagne di denigrazione di avversari politici (partiti e/o singole personalità politiche) con modalità che oggi inequivocabilmente definiremmo atti di disinformazione. Tuttavia, per diversi anni influencer e consulenti della Casaleggio Associati si sono potuti muovere con grande libertà nel “far west” della comunicazione politica social.

In tempi più recenti l’Italia è stata bersagliata da campagne di influenza orchestrate da gruppi mercenari russi e cinesi. In questo ambito ci sono state attività molto intrusive in campo no-vax e più subdole operazioni per la promozione del vaccino russo Sputnik. Partendo quasi sempre dagli stessi canali Telegram e dagli stessi media russi e cinesi che ispiravano i no-vax hanno spostato le loro attività di dezinformatsiya sull’aggressione russa contro l’Ucraina.

Per far luce sulla loro comunicazione social avevo suggerito prima dell’inizio della campagna elettorale che i partiti rendessero pubblici i loro finanziamenti ai Big Tech prima delle elezioni (altri colleghi avevano anche raccomandato che si facesse attenzione all’uso di bot e false identità) ma queste proposte non sono state raccolte né da Agcom né dai partiti. Sapere chi ha finanziato i partiti tre mesi dopo le elezioni come prevede oggi la legge non interessa praticamente nessuno.

Il terzo aspetto della rivoluzione tecnologica con cui i partiti e movimenti politici devono fare i conti riguarda la transizione digitale dei loro assetti organizzativi (e le stesse regole di democrazia interna). Per diversi anni Beppe Grillo – in buona o cattiva fede – ha mitizzato il potere della Rete come il nuovo strumento per assicurare una vera partecipazione politica. In questo ambito i grillini hanno anche sofferto di una grave miopia geopolitica la cui matrice nessuno ha mai capito bene. Non è un mistero che numerosi esponenti dei 5 stelle hanno stabilito buone relazioni con grandi aziende digitali cinesi, come Huawei, Inspur e Zte o russe come Kaspersky. I nuovi dirigenti del Movimento 5 Stelle hanno finalmente ammesso che l’esperimento politico-digitale grillino (un mix pasticciato di internet e intranet) non ha funzionato.

Dal 2018 con il governo gialloverde, inoltre, molto è cambiato. Nel Movimento 5 Stelle si è passati dall’esaltazione di una impossibile democrazia diretta (e dalla demagogia della politica in streaming) alle conversazioni riservate tra cerchie e “caminetti” sempre più ristretti nonché alle dure polemiche interne come quella particolarmente aspra tra Davide Casaleggio e Giuseppe Conte su Venezuela e dintorni. Dopo queste esperienze negative i 5 Stelle non teorizzano più che uno vale uno e – anche per questo – hanno deciso di ristrutturare i loro apparati tecnologici e le loro piattaforme di comunicazione in termini di sicurezza e privacy. Vedremo. Se son rose fioriranno (anche a seguito delle critiche del Garante).

In casa Partito democratico – sin dai tempi di Pierluigi Bersani e Matteo Renzi – sui rapporti tra politica e dimensione digitale le idee sono sempre state piuttosto confuse. In vista dell’imminente congresso, Elly Schlein sembra più aperta a combinare innovazione politica e innovazione tecnologica rispetto alle posizioni conservatrici di Stefano Bonaccini.

Concludo con una ultima osservazione che nasce dalla mia esperienza diretta su Più Europa. Il partito di Emma Bonino ha un numero molto limitato di iscritti rispetto agli elettori ed è quindi molto più facile promuovere e coordinare la partecipazione digitale dei propri iscritti. Sinora il confronto interno alle chat delle diverse piattaforme politiche di Riccardo Magi, Benedetto Della Vedova, la new entry Federico Pizzarotti e gli altri leader è stato un confronto costruttivo e vivace. Nelle prossime settimane con l’elezione dei delegati e degli organi dirigenti inizia il dibattito congressuale vero e proprio. Sarà interessante capire se la dimensione politica digitale continuerà a funzionare. Sinora l’esperienza sembra dimostrare che la transizione digitale virtuosa è possibile anche nei partiti, ma a una condizione: purché non si contrapponga artificiosamente l’impegno politico in presenza e a distanza. È come all’Università. Gli atenei esclusivamente digitali a distanza presentano limiti di apprendimento nitidamente emersi sin qui, ma nel contempo la didattica esclusivamente limitata alla presenza in aula sarebbe un grave errore perché escluderebbe molte persone (giovani e meno non giovani). Anche in politica serve una soluzione ibrida che consenta ai partiti di sviluppare l’impegno e la partecipazione degli attivisti alla vita dei rispettivi partiti nonché a stimolarli a riavvicinarsi ai cittadini e alle loro esigenze. Questa è la vera sfida che la transizione digitale pone a tutte le forze politiche e alla politica italiana. Nonostante i grandi ritardi accumulati è ancora possibile recuperare il tempo perduto.

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Anche in politica serve una soluzione ibrida, in presenza e attraverso strumenti tecnologici, che consenta ai partiti di sviluppare l’impegno e la partecipazione degli attivisti alla vita dei rispettivi partiti nonché a stimolarli a riavvicinarsi ai cittadini e alle loro esigenze. Il commento di Marco Mayer

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