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Un malato mentale, così definito sui media italiani, entra in un centro commerciale, prende un coltello da uno scaffale, colpisce, uccidendo e ferendo chi a caso lo circonda, ignari e casuali esseri umani. Ognuno con la loro storia, la loro vita, la loro fatica esistenziale.

Movente del gesto: l’invidia per il benessere altrui e l’impatto che questo stato d’animo, l’invidia, ha sul precario equilibrio dell’omicida.

L’invidia in questo caso viene coperta dalla malattia mentale, ma basta essere un poco svegli e realisti per scovarla ormai pervasiva, in ogni angolo del nostro sociale, nella famiglia in cui ci sentiamo protetti, nell’ambiente lavorativo dove le regole del gioco son sempre più dure, nell’ambito sociale dove hobbies e attività ludiche diventano spesso cosi competitive da rovinarne la funzione rigenerante.

Chi non è affetto da questa patologica condizione dell’animo – e alcuni ancora se ne salvano – stenta a comprendere come ci si possa sentire “invidiosi”. Ognuno ha la propria storia, le proprie fatiche e, accanto alle fortune, le proprie sfortune. Confrontarsi all’altro sempre e solo unicamente per cogliere ciò che a noi manca e farne motivo di rancore e aggressività, non solo è tossico per il soggetto stesso, ma è anche un pessimo esempio (educativo) per chi lo circonda.

Eppure l’invidia ha profondamente infettato, in questo contesto post-pandemico, le nostre vite e le nostre organizzazioni, prima fra tutte l’organizzazione per antonomasia, originaria: la famiglia. Da qui l’invidia, in maniera rapida e totalizzante, si propaga nelle aziende, nelle istituzioni, nei circoli amicali e più in generale, nell’intera società, ben al di là dei confini nazionali.

Perché l’invidia è il nuovo marchio relazionale con cui si guarda all’altro: al vicino di casa, al cugino più fortunato, al competitor più smart, al collega più gettonato.

E così facendo – distogliendo, cioè, sempre l’attenzione da sé per guardare altrove e sentirsi minorati, frustrati e per questo rabbiosi – si getta via tempo e valore. Ciò che non c’è non c’è, ciò che non si ha si potrà forse un giorno avere, ma non certo con la pretesa che qualcuno ce lo debba dare. Eppure, oggi il nostro mondo è paludato proprio qui: nell’assurda pretesa che ciò che non abbiamo ci spetti di diritto e ci aiuti a dimenticare chi ha ancora meno di noi, così che la nostra coscienza non ne venga scossa in modo irreparabile.

Per chi l’invidia non la prova, essa è solo causa di tristezza; una tristezza che fa sentire annientati di fronte alla meschinità e al vizio molle dell’invidioso, che sa stare solo alla finestra, vedendo scorrere le vite altrui, che invidia, appunto, dimenticandosi le proprie responsabilità e risorse, appesantendo chi lo circonda e spesso facendosi opportunamente chiamare “poverino”. Un “poverino” feroce e certamente sfortunato, perché non riesce a godersi nemmeno la propria povera cattiveria e inettitudine, che a volte, opportunisticamente, qualche vantaggio potrebbe pure darlo, s’eppur a brevissimo raggio.

Lo scrittore fiammingo Julien De Valckenaere diceva: “L’invidioso non riesce a sopportare che tu faccia il passo più lungo della sua gamba”.

Ed è esattamente questo lo stato d’animo che si evince anche nella lettura degli ormai numerosi articoli sul nuovo governo insediatosi in Italia qualche giorno fa e sulle nomine recenti (governative) e future (delle partecipate). Si percepisce in molti commenti una lotta per il posto agognato. Un comportamento che, in verità, ha sempre contraddistinto queste fasi di passaggio verso i nuovi governi o verso le nuove costituzioni degli organi di gestione delle aziende pubbliche o partecipate. Ma questa volta siamo di fronte a un deciso cambio di rotta: il primo governo di centrodestra, il primo governo guidato da una donna – tutte cose che farebbero sperare anche in un radicale nuovo criterio di assegnazione delle cariche.

Vorrei tanto essere stupita dalla passione per i numeri, i dati, le competenze, i meriti. E se l’invidia spinge all’autocommiserazione, all’aggressività diretta verso l’altro, al sottrarsi a una sana autocritica e al pettegolezzo nefasto, nonché all’ossessione per la distruzione dell’altro, allora mi piacerebbe che per una volta si riuscisse a parlare di desiderio alla crescita, spinto anche dal riempire quel gap che ci differenzia dall’altro. Il desiderio di raggiungere gli stessi risultati dell’altro, la sua eccellenza, la sua perizia, scatenando una corsa continua al miglioramento. Non più diffamazione di quello più fortunato o più capace, come fa il becero invidioso, ma “intossicarci” di valorizzazione altrui, delle sue doti peculiari, emularne i punti di forza per somigliare al modello vincente.

Potrebbe accadere se si avesse il coraggio di guardare alle necessità vere del Paese, a trasformare i meccanismi particolari in movimenti sistemici, ad avere, per un momento che duri almeno una “normale” legislazione, l’illusione di una lungimiranza costruttiva per l’intera collettività. Se non ci riusciamo in questo momento di discontinuità col passato dettato da disruption post pandemica, necessità correlate alla guerra e curva inflattiva, giro di boa, che la si condivida o meno, della nuova leadership politica, temo non ci si riuscirà più. Abbandonare le proprie piccole meschinità è una questione di coraggio e integrità. Non è poi così difficile.

L’invidia per la felicità altrui ci ha pervasi, è ora di voltare pagina. Scrive Zanardi

L’invidia nel caso dell’omicidio al centro commerciale viene coperta dalla malattia mentale, ma basta essere un poco svegli e realisti per scovarla ormai pervasiva, in ogni angolo del nostro sociale, nella famiglia in cui ci sentiamo protetti, nell’ambiente lavorativo dove le regole del gioco son sempre più dure, nell’ambito sociale in cui le attività ludiche diventano spesso così competitive da rovinarne la funzione rigenerante. Il commento di Anna Zanardi, International Board Advisor and Change Consultant

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