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L’ampia intervista concessa da Romano Prodi a la Repubblica il 27 agosto 2025 è, purtroppo, la conferma di un cliché che continua a ripetersi. Ogni volta che non governa la sua parte politica, ecco che rispunta il rischio autoritario. È un disco rotto, stanco e sbiadito, che diventa però inaccettabile quando a riproporlo è un ex presidente della Commissione europea, un uomo che ha guidato Palazzo Chigi e che dovrebbe avere strumenti ben più sofisticati di una retorica che sa di secolo scorso.

Il problema non è soltanto la formula usurata, è soprattutto la ricetta che Prodi ripropone con ostinazione: più Europa per fare tutto. Per correggere i guasti della globalizzazione, per gestire le migrazioni, per governare l’economia e persino per regolare la politica estera. Una chiave che poteva forse affascinare negli anni Novanta, ma che oggi, dopo trent’anni di risultati concreti, appare assai meno convincente.

Quello che stupisce, e al tempo stesso indigna, è l’assenza totale di autocritica. Perché l’Europa che oggi conosciamo è proprio quella costruita anche da Prodi. È l’Europa del Green Deal, progetto che doveva rilanciare crescita e sostenibilità e che invece si è trasformato in un boomerang per le nostre imprese, costrette a sopportare costi insostenibili mentre Stati Uniti e Cina correvano su binari ben più pragmatici. È l’Europa che ha avallato una politica di accoglienza sui migranti che ha scaricato il peso quasi esclusivamente su Italia, Grecia e Spagna, senza mai riuscire a dare vita a una gestione davvero comune e solidale. È l’Europa che ha avuto il coraggio di mettere in comune la moneta, ma non il debito: una contraddizione che ancora oggi soffoca la crescita, impedendo politiche anticicliche e lasciando che la finanza diventi l’unico arbitro della stabilità.

E quando si guarda alla politica estera la realtà è addirittura lampante: su Gaza, la Francia di Macron spinge per riconoscere lo Stato palestinese (che non esiste), mentre la Germania, saggiamente, dice il contrario. Altro che politica estera comune! L’analisi di Prodi non riesce nemmeno a tenere conto che le nazioni europee non si possono cancellare con un tratto di penna, e che le loro posizioni restano diverse perché diverse sono storie, interessi e sensibilità.

Ma il passaggio più debole e irritante dell’intervista è quello sull’“umiliazione dell’Europa” a fronte del patto tra Washington e Mosca. Basta con questi luoghi comuni: Stati Uniti e Russia giocano in un altro campionato geopolitico. Non si tratta di una questione di umiliazione, ma di realtà. La potenza militare, economica ed energetica di quei due attori colloca l’Europa in una posizione di inevitabile secondo piano, e non è con i lamenti di Prodi che si colma il divario.

Di fronte a questo bilancio, stupisce che l’ex premier non senta il dovere di chiedersi se davvero il mantra del “più Europa” sia la risposta a tutto. Perché se l’Europa che c’è è quella che lui ha contribuito a plasmare, allora l’autocritica sarebbe il primo passo necessario. Invece no: ancora una volta la colpa è sempre degli altri, la soluzione è sempre Bruxelles, la diagnosi è sempre la stessa.

La verità è che a Prodi e alla sua generazione politica manca il coraggio di riconoscere i fallimenti. Preferiscono rifugiarsi nella retorica dell’allarme democratico e nella ricetta facile del centralismo europeo. Ma la storia recente ci dice che non basta invocare l’Europa: occorre costruirne una nuova, fondata su responsabilità condivise, rispetto delle identità nazionali e capacità reale di competere con le grandi potenze globali.

In altre parole, serve un’Europa delle nazioni, non un’Europa in cui Bruxelles decide per tutti e pretende di cancellare le differenze. Prodi ripete sempre lo stesso ritornello, ma il tempo dei dischi graffiati è finito: serve coraggio politico, non nostalgia di una stagione che non tornerà più.

Prodi e l’Europa. Ma un po’ di autocritica mai? Scrive Arditti

La verità è che a Prodi e alla sua generazione politica manca il coraggio di riconoscere i fallimenti. Preferiscono rifugiarsi nella retorica dell’allarme democratico e nella ricetta facile del centralismo europeo. Ma la storia recente ci dice che non basta invocare l’Europa: occorre costruirne una nuova, fondata su responsabilità condivise, rispetto delle identità nazionali e capacità reale di competere con le grandi potenze globali

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