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Con il cambio di paradigma causato dalla guerra russa in Ucraina, l’energia è diventato un tema fondamentale per il rapporto transatlantico. Ha innervato il Consiglio commercio e tecnologia nel Maryland, dove alti rappresentanti di Stati Uniti e Unione europea hanno discusso di come sviluppare le proprie industrie green tech senza svantaggiare quelle dell’alleato. E nelle stesse ore è stato sviscerato nel cuore di Roma, al Centro Studi Americani, da un panel di esperti italiani e statunitensi. “Verso il 2050: la prospettiva transatlantica fra transizione e sicurezza energetica” è stato moderato da Marco Margheri, Presidente di Wec Italia e capo delle relazioni con gli Stati Uniti di Eni.

In apertura, Marta Dassù – già viceministro degli Affari esteri, oggi direttrice di Aspenia – ha delineato la portata della sfida: come far convergere lo sconquassamento della sicurezza energetica globale con le sfide legate alla transizione ecologica? I piani statunitensi di decarbonizzazione segnano una convergenza d’intenti con l’Ue, ha spiegato, ma l’industria del Vecchio continente teme di essere sbaragliata dai sussidi Usa – ed entrambe le parti vogliono evitare una guerra commerciale. Specie l’Europa, con i suoi piani di transizione messi in dubbio dall’incertezza energetica, dalla crisi che ne deriva, e dalla frammentazione dei Paesi europei, che vi hanno risposto con soluzioni miopi e nazionaliste.

Sul breve termine, ha sottolineato Robert Johnston – direttore esecutivo del Center on Global Energy Policy alla Columbia University e della divisione Energia, clima e risorse dell’Eurasia Group –, l’instabilità accompagnerà i mercati energetici. Oltre alle ripercussioni della guerra russa (tra cui il price cap) si sconta il declino di investimenti in idrocarburi negli ultimi tre anni: quando la domanda si è risollevata dopo la pandemia, l’offerta non ha saputo tenere il passo. La questione si riflette sul lungo termine, ha continuato l’esperto: quanto petrolio e gas serviranno per completare la transizione? Tra incertezza economica (oggi) e climatica (domani), anche al netto della fame di combustibili fossili del mercato globale, le compagnie esitano a investire. E ne risente l’approvvigionamento energetico.

La ricaduta è evidente anche solo guardando alle bollette. Giacomo Vigna (a capo della della terza e quarta divisione della Direzione Generale per la politica industriale, l’innovazione e le piccole e medie imprese al Ministero delle Imprese e del Made in Italy) ha rimarcato che nel breve termine il governo non può che rispondere proteggendo famiglie e imprese dal caro-energia. Il prezzo celato di una mancanza di visione che ha fatto affidamento a un sistema energetico integrato ma non resiliente, ha evidenziato Vigna, e poco adatto a rispondere agli imprevisti. Guardando al futuro, si tratta di scommettere su un mix di risposte come idrogeno, fotovoltaico, eolico, batterie. Ed è lì che andranno i fondi, ha spiegato, con il duplice obiettivo di riportare in-house la produzione di queste soluzioni tecnologiche fondamentali. Una strategia che passa anche dal riprendere in mano i processi di escavazione e raffinazione dei materiali critici per la transizione, condizione necessaria per ricostruire l’autonomia energetica.

Nel mentre, se non altro, è emersa con forza la dimensione strategia dell’energia. Paradossalmente, ha detto David Livingston senior advisor dell’Inviato speciale del Presidente statunitense per il clima, John Kerry –, i Paesi europei hanno interiorizzato la questione energetica assieme a quella della difesa, mentre gli Usa hanno fatto lo stesso con la lotta al cambiamento climatico. È nel solco di questa svolta, ha spiegato, che si può leggere la politica di sussidi statunitense come il contributo di Washington alla sfida della decarbonizzazione: investire il più possibile nelle tecnologie verdi ora, per renderle più accessibili e favorirne la diffusione quanto prima. Evitando di ricadere nell’inerzia climatica degli anni trumpiani, anche qualora vincessero i Repubblicani nel 2024, perché questi investimenti ridisegneranno l’economia Usa a partire da gennaio 2023. E senza cadere nell’errore dell’Ue, pioniera virtuosa degli investimenti in green tech, che pur riducendo i costi delle tecnologie rinnovabili ha finito per finanziare le industrie di Paesi terzi – tra cui il rivale sistemico cinese.

Dunque, ha continuato Livingston, occorre sfruttare convergenza e complementarietà – le punte di eccellenza settoriali europee, il pragmatismo statunitense – per lavorare verso gli obiettivi comuni. E questo vale anche sul versante della politica energetica internazionale, investendo sul rapporto con i Paesi terzi, la loro capacità attuale di esportazione – favorendo l’estrazione di idrocarburi con la minor intensità carbonica possibile, ha chiosato Johnston indicando il Medioriente – e il loro potenziale di espansione sul versante delle tecnologie verdi. La soluzione è incoraggiare anche i Paesi emergenti a esportare le molecole che servono al mercato, che sia il gas prima e l’idrogeno verde (prodotto esclusivamente con elettricità da fonti rinnovabili) poi, in modo da rispondere contemporaneamente alla loro necessità di sviluppo sostenibile e alla fame di energia del mercato globale, di modo che si possa stabilizzare. Questa, ha concluso il funzionario statunitense, è la risposta all’incertezza sulla necessità futura di idrocarburi, che verrà stabilita, in ultima istanza, dalla domanda.

Sul versante europeo, la ricetta di Dassù è semplice: rinsaldare l’unità transatlantica anche sul piano economico ricorrendo a più pragmatismo e fondi comuni europei, da investire sui progetti adatti alla strategia di sicurezza energetica e alla transizione ecologica. Questa è già una delle soluzioni del governo di Giorgia Meloni, ha concluso Vigna, che attraverso i progetti di interesse comune europeo (Ipcei) e il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sta mettendo a terra gli investimenti con entrambi gli obiettivi in mente. Con un occhio di riguardo per la nascente strategia europea sui materiali critici, e l’altro sulle leve dell’economia circolare – materia in cui l’Italia è leader in Occidente. E assicurandosi di agire in sinergia col settore privato, “nel solco della cooperazione transatlantica”.

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