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Alla fine il governo del Kosovo ha deciso di posticipare l’attuazione delle nuove regole che avrebbero costretto gli abitanti delle aree a maggioranza serba a cambiare le targhe automobilistiche rilasciate dai serbi con quelle rilasciate dai kosovari. Le nuove regole sarebbero dovute entrare in vigore dalla mezzanotte di oggi, lunedì 1 agosto, ma domenica l’etnia serba del nord ha barricato le strade e uomini armati hanno sparato colpi di pistola in segno di protesta. Fonti locali dalla principale città del nord, Kosovska Mitrovica, parlano di “situazione sotto controllo, tranquilla”, tutti sembra parzialmente disinnescato (almeno per ora).

Ma la questione è simbolica (i serbi in Kosovo si rifiutano di riconoscere le autorità kosovare), e le tensioni sono più che reali. La vicenda delle targhe – rinviata di un mese sotto le pressioni di Washington e Bruxelles – è soltanto un punto di sfogo.

Il Kosovo ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia nel febbraio 2008, quasi un decennio dopo essersi staccato a seguito di una sanguinosa guerra che ha visto la Nato impegnata direttamente. A distanza di anni, le relazioni tra gli abitanti, serbi e prevalentemente albanesi, non sono normalizzate. Anche perché il territorio kosovaro è uno dei luoghi di tensione geopolitica in cui si muovono forze che sostengono una visione anti-Occidentale. Nei Balcani occidentali potrebbero inoltre riflettersi gli effetti dell’invasione ucraina.

La Nato ha descritto la situazione come “tesa”, poiché centinaia di persone di etnia serba hanno causato il blocco (con camion e altri veicoli) dei due valichi di frontiera chiave con la Serbia, Brnjak e Jarinj, e costretto la polizia a chiudere i passaggi per ragioni di sicurezza. La missione guidata dall’Alleanza Atlantica in Kosovo, Kfor (in cui l’Italia ha il contributo di maggioranza), ha dichiarato di essere pronta a intervenire “se la stabilità è messa a rischio”.

È una comunicazione automatica, la missione Kfor è il più importante impegno Nato attivo (Camp Bondsteel è uno dei centri più grandi dell’alleanza).

Sulla situazione attuale, e su quella della regione in generale, c’è molta disinformazione. Si proiettano dossier ampi, crisi complesse. Per esempio, alcuni degli uomini armati serbi si sono presentati con in testa caschi con la lettera “Z”, che marchia le truppe russe assegnate all’assalto contro l’Ucraina.

Il presidente serbo, Alexandar Vucic, ha detto di aspettarsi che le tensioni si “stemperino” dopo il rinvio delle regole, ma sa bene che anche l’anno scorso, a ottobre, si erano verificate proteste simili quando fu avanzata la proposta di cambiare le regole sulle targhe. Le tensioni tra Kosovo e Serbia continuano nonostante le due parti si siano impegnate ad avviare un dialogo sponsorizzato dall’Ue per cercare di risolvere le questioni di vecchia data.

La continuazione di certe tensioni è parte dell’interesse politico dei due Paesi. La loro narrazione ruota anche attorno alle retoriche aggressive sul piano politico, con livello di ingaggio a bassa intensità, sebbene la ricerca del mantenimento dello status quo è un fattore di interesse sia a Pistrina che a Belgrado.

La presidente kosovara, Vjosa Osmani, è stata a Washington la scorsa settimana insieme al primo ministro, Albin Kurti. I due hanno incontrato il segretario di Stato, Antony Blinken, e siglato un importante accordo di investimento con la Millennium Challenge Corporation, un ente governativo statunitense, che ha stanziato 237 milioni di dollari per le infrastrutture energetiche del Kosovo. Intervistata da Ishaan Tharoor per Today’s WorldView del Washington Post, Osmani aveva messo in guardia dai pericoli più ampi che incombono sulla sua regione, dove l’influenza russa ha storicamente giocato un ruolo di primo piano. “L’obiettivo di Vladimir Putin è quello di espandere il conflitto in altre parti del mondo”, ha detto, “poiché il suo obiettivo è sempre stato quello di destabilizzare l’Europa, possiamo aspettarci che uno dei suoi bersagli possano essere i Balcani occidentali”.

Dobbiamo tenere presente che più di un anno fa, Mosca aveva espresso la sua contrarietà alla possibile adesione della Bosnia ed Erzegovina alla Nato, ricorda Matteo Bressan, docente di Relazioni internazionali per Sioi e Lumsa, e analista della Nato Foundation.

“E di contro – continua Bressan, che lo scorso anno ha firmato per il CeMISS un’analisi sul Kosovo – l’offensiva russa in Ucraina ha rafforzato la volontà sia del Kosovo sia della Bosnia ed Erzegovina di aderire all’Alleanza Atlantica per preservare la loro sicurezza, anche alla luce dei tentativi destabilizzanti condotti da Mosca in occasione dell’adesione alla Nato del Montenegro e nella Repubblica di Macedonia del Nord, rispettivamente nel 2017 e nel 2020”.

La regione balcanica è oggetto di proiezioni di interessi strategici di diversi attori. Negli anni della pandemia questa competizione è emersa chiaramente: l’Unione Europea non è riuscita a far valere l’ingente quantità di aiuti e vaccino inviati contro la pressante propaganda messa in piedi da Russia e Cina (sebbene con un impegno minore). Il Paese, che sta formalmente cercando l’adesione all’Ue, ha già aumentato le sue forze armate con armi russe e cinesi, tra cui aerei da guerra, carri armati e altre attrezzature (nel 2020 ha per esempio inaugurato i droni cinesi Wing Loong).

Così nei Balcani occidentali si muovono le potenze globali

L’offensiva russa in Ucraina ha rafforzato la volontà sia del Kosovo sia della Bosnia di aderire all’Alleanza Atlantica, spiega Bressan (Lumsa/Sioi). L’ingerenza estera sulla crisi tra Belgrado e Pristina è un elemento determinante

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