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Le elezioni anticipate possono mettere in serio pericolo una fetta consistente del piano industriale Mps, messo a punto dal ceo Luigi Lovaglio per rimettere in sesto il Monte dei Paschi e guidare l’istituto verso la privatizzazione, o meglio tra le braccia di un nuovo sposo. Che non sarà più lo Stato, oggi azionista al 64% dopo la nazionalizzazione del 2017, costata ai contribuenti italiani oltre 5 miliardi di euro.

Sia chiaro, l’aumento di capitale da 2,5 miliardi con cui mettere in sicurezza la banca più antica del mondo e renderla appetibile per le future nozze (impegno per circa due terzi a carico dello Stato, il resto in quota mercato) non è in discussione. Il Tesoro farà verosimilmente la sua parte e gli investitori, chiamati a mettere circa 900 milioni, la loro. Su questo lo stesso numero uno di Siena, ex manager del Creval e succeduto a Guido Bastianini dopo l’addio di febbraio, si è detto più volte fiducioso e certo della buona riuscita degli esuberi.

Il problema è un altro. Ovvero quei 3.500 esuberi che Lovaglio vuole portare a casa entro e non oltre il prossimo mese di novembre e messi in calce al piano industriale. Un’operazione complessa già di per se, visto che mettere le mani su Mps non è mai cosa facile e che per giunta non poteva arrivare in un momento più sbagliato. Tra meno di due mesi l’Italia andrà al voto ed è giocoforza immaginare che la questione delle uscite finisca direttamente nel mezzo della campagna elettorale, rallentando la messa a terra del piano stesso, almeno per quanto riguarda la parte del personale.

Ora, fa notare una fonte a conoscenza del dossier, i colli di bottiglia sono essenzialmente due. Tanto per cominciare la firma degli accordi sindacali per lo sblocco degli esuberi coinciderà con la presentazione delle liste da parte dei partiti, a metà agosto. E questo potrebbe far finire gli accordi tra lavoratori e sindacati direttamente sotto il fuoco dei partiti, pronti a gridare allo scandalo e alla macelleria sociale, strumentalizzando l’intera operazione (non si tratta di licenziamenti bensì di uscite guidate attraverso prepensionamento). A Siena, a cominciare dallo stesso Lovaglio, sanno benissimo a cosa il management sta andando incontro.

Non bisogna mai dimenticare che un conto è la firma dell’accordo sindacale, un conto la firma del lavoratore per l’effettiva esecuzione del prepensionamento. In quel lasso di tempo la politica potrebbe giocare qualche brutto scherzo, magari mettendo pressione e forse paura a più di un lavoratore, che potrebbe finire con il non accettare l’uscita. Ed è lì che il piano di Lovaglio, che è garanzia dinnanzi al mercato del salvataggio di Siena, potrebbe subire uno smottamento, seppur parziale.

L’altra criticità, viene raccontato, è proprio dentro la sede storica di Mps, Rocca Salimbeni, dove lavorano circa 2.500 dipendenti. Ora, dall’inizio della pandemia molti di essi lavorano da casa, in smart working, ma a ritmi decisamente ridotti rispetto alla normale attività d’ufficio. Dunque, viene fatto notare, è lecito domandarsi come sarà possibile convincere centinaia di persone ad accettare di andare in pensione in anticipo e con un assegno momentaneamente ridotto quando a livello di impegno lavorativo tra lo stare in pensione e le attuali condizioni, retribuite a stipendio pieno, non c’è molta differenza? Il rischio è che Mps si trovi sui conti degli esuberi preventivati ma non portati a termine, continuando a registrare un costo del lavoro pari agli anni addietro. Anche per colpa della politica.

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Il ceo di Rocca Salimbeni vuole portare a casa 3.500 esuberi entro il prossimo autunno, ma non aveva previsto la fine della legislatura e le conseguenti elezioni. E ora l’intera operazione rischia di finire sotto il fuoco dei partiti, con scossoni sulla tabella di marcia. Il ruolo degli accordi sindacali

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