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Sheikh Wadee’ al-Jaabari è un uomo pragmatico. Capo del clan più influente di Hebron, porta in spalla una tradizione antica, una rete di relazioni estese e una legittimità fondata sul consenso locale. Il 24 marzo scorso, insieme ad altri quattro sceicchi, ha firmato una lettera indirizzata al ministro israeliano dell’Economia Nir Barkat – una iniziativa rivelata ora dal Wall Street Journal – con una proposta destinata a cambiare il quadro: aderire agli Accordi di Abramo, costruendo un modello di “emirato palestinese” basato sul dialogo diretto con Israele e sul superamento della fallimentare leadership di Ramallah.

A questa iniziativa si sono successivamente uniti altri 13 leader tribali, coprendo circa il 78% della popolazione dell’area metropolitana di Hebron, oltre 700.000 abitanti. “Vogliamo cooperazione con Israele”, hanno dichiarato. “Riconosciamo lo Stato ebraico e chiediamo di avviare un percorso concreto, che porti lavoro, stabilità, sicurezza”.

Non è solo un gesto simbolico, e non viene da esponenti marginali. Al-Jaabari ha condannato esplicitamente la deriva dell’Autorità Nazionale Palestinese, accusata di corruzione e immobilismo. Ha rifiutato l’illusione dello Stato palestinese: “Non ci sarà nemmeno tra mille anni”, ha dichiarato. E ha indicato come alternativa un percorso autonomo, fondato su interessi concreti: lavoro, commercio, stabilità.

Il piano, discusso in incontri riservati con Barkat, prevede l’avvio di mille permessi di lavoro in Israele, fino a raggiungere quota 50.000. Si parla anche di una zona economica speciale, di nuovi collegamenti logistici, di “tolleranza zero” contro ogni forma di terrorismo. Un approccio pragmatico, che rifiuta il culto della violenza e scommette su una convivenza fondata su scambi reali.

Tutto questo si scontra frontalmente con la strategia di Hamas, Hezbollah e, soprattutto, dell’Iran. Il 7 ottobre non è stato un episodio isolato: è stato il tentativo deliberato di far saltare l’asse della normalizzazione tra Israele e mondo arabo. Una risposta di sangue e terrore al processo innescato dagli Accordi di Abramo. Ma quel disegno non ha avuto successo ovunque. Hebron – città simbolo, difficile e contesa – dimostra che una parte del mondo palestinese non ci sta più a essere ostaggio delle ideologie armate.

L’Europa, però, resta indietro. Prigioniera di schemi superati, insegue la diplomazia del déjà vu, continua a invocare processi di pace che non esistono più. Mentre sul campo, nel cuore dei territori, emergono nuove leadership, nuove idee, nuovi equilibri. Non perfetti, certo. Ma autentici. Non è la soluzione a tutti i problemi. Ma è un segnale fortissimo che le cose si stanno muovendo.

E si muovono anche perché l’asse ideologico e militare che per anni ha bloccato ogni spiraglio – quello che unisce la Siria di Assad, Hezbollah, Hamas e il regime iraniano – è oggi al minimo storico di credibilità. Le piazze arabe non si infiammano più per i loro proclami. I finanziamenti calano. La retorica non convince. In questo vuoto si inserisce chi, come gli sceicchi di Hebron, decide di tentare qualcosa di diverso. Qualcosa che – se ascoltato – potrebbe persino cambiare la storia.

In Cisgiordania la svolta tribale che l’Europa dovrebbe ascoltare. Scrive Arditti

Il Wall Street Journal ha rivelato che il 24 marzo scorso il ministro israeliano dell’Economia Nir Barkat ha ricevuto una lettera da al-Jaabari, capo del clan più influente di Hebron, e altri quattro sceicchi, con una proposta destinata a cambiare il quadro: aderire agli Accordi di Abramo, costruendo un modello di “emirato palestinese” basato sul dialogo diretto con Israele e sul superamento della fallimentare leadership di Ramallah

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