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L’Italia dedica un’attenzione strategica all’Africa, che tocca il tema della sicurezza energetica — molto caldo al momento — ma anche quelli della cooperazione, il commercio, l’assistenza allo sviluppo e all’istruzione, il rispetto di un “patrimonio culturale del continente africano, in tutte le sue forme ed espressioni, [che] è una ricchezza da preservare e valorizzare”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio fornendo un’immagine sul valore del continente durante la cerimonia dell’Africa’s Day alla Farnesina, mercoledì 25 maggio.

Un’altra immagine l’ha fornita Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo che proietta la linea geopolitica e di politica internazionale putiniana: in quello stesso giorno anche Mosca ha festeggiato l’Africa, e Lavrov ha sparato sui social network una fotografia dal sapore programmatico, in cui lui era ripreso insieme a tutte le ambasciatrici e gli ambasciatori dei Paesi africani in Russia. L’immagine ricorda quella del Russia-Africa Summit che Vladimir Putin ospitò nel lusso balneare di Sochi a ottobre del 2019, col russo al centro di una serie di leader africani.

Se da un lato l’Italia con l’Unione europea continua a spingere progetti di cooperazione ottimamente recepiti da molto governi africani, altri si stanno progressivamente de-europeizzando. Questo sganciamento si lega a volte alla mancanza di strategia, a errori di valutazione per approcci pseudo-colonialisti, alla mancanza di offerta e alla presenza di un’alternativa più dritta offerta da altri attori. Come la Russia appunto; ma anche la Cina, che ha diffuso la propria influenza geoeconomica nel continente anche attraverso ambiziosi piani infrastrutturali; o l’Iran che ha recentemente espresso la necessità di approfondire la propria presenza in Africa; o ancorala Turchia e i Paesi del Golfo che sono sempre più attivi in determinate aree del continente.

“Gli africani nel fuoco incrociato della geopolitica” titola un’analisi di Nosmot Gbadamosi uscita nella newsletter che Foreign Policy dedica al continente. Il Daily Maverick, media sudafricano, scrive che il “continente potrebbe trovarsi sotto il fuoco incrociato” in mezzo a certe dinamiche in movimento. Il Congresso degli Stati Uniti, per esempio, sta ragionando su un disegno di legge di aprile che avrebbe cercato di “contrastare l’influenza e le attività maligne” della Russia e dei suoi proxy in Africa. “La proposta di legge degli Stati Uniti mira a punire i Paesi africani per essersi allineati con la Russia”, è il titolo di un articolo del 20 maggio del quotidiano nigeriano Premium Times.

Si sta costruendo una percezione alterata, spiega un diplomatico di un Paese del continente: “Le policy sull’Africa sembrano guidate principalmente da preoccupazioni di politica internazionale nei confronti dei competitor strategici occidentali come Russia e Cina, piuttosto che dalla volontà di creare un ecosistema più prospero per aiutare lo sviluppo, per migliorare le condizioni di vita degli africani, per dare spazio alla grande risorsa che rappresentiamo”. C’è il rischio che l’Africa si trasformai nel teatro di una guerra fredda multipolare. E qui all’Europa viene chiesto di giocare un ruolo di bilanciamento. Questo diventa anche un’opportunità, ma a patto che i singoli Paesi europei non decidano di farsi coinvolgere come un altro dei poli di quel confronto.

Il disegno di legge citato da quei due media africani — promosso dal deputato democratico  Gregory Meeks — si affianca alla Legge sulla concorrenza strategica, che cerca di sostenere gli Stati Uniti nella lotta con la Cina per l’influenza in Paesi terzi, e alla Legge sull’innovazione e la concorrenza degli Stati Uniti, un testo di 2.900 pagine anch’esso finalizzato  a contrastare la Cina — entrambe etichettate dai ricercatori di politica estera Odilile Ayodele e Mikatekiso Kubayi come “probabilmente simili alla Guerra Fredda”. Il fatto che questi progetti su larga scala diano priorità alla Cina e alla Russia come obiettivo principale “parla più di potere […] che di una vera partnership con l’Africa”, spiegano.

Ci sono tuttavia circostanze reali piuttosto preoccupanti, e su questo la fascia del Sahel è paradigmatica di come si stia producendo un ridimensionamento occidentale — che nello specifico significa Europa più che Usa — a beneficio di altri attori. Ragioni come insicurezza, instabilità, scarso sostegno ed efficacia occidentali, hanno portato a cinque colpi di stato riusciti (Burkina Faso, Ciad, Guinea, Mali e Sudan) e due falliti (Guinea Bissau e Niger) nel giro di poco più di un anno. In questo frullatore c’è finito un mix di anti-occidentalismo, di ricerca di appoggi comodi da parte dei golpisti, disinformazione e penetrazione strategica collegata. Le preoccupazioni dei congressisti americani e di alcuni pianificatori europei per molti versi sono legittime.

L’attore che ne ha beneficiato di più è stata la Russia. Il caso del Mali è simbolico: la giunta golpista ha scelto di affidare la sicurezza della nazione di cui ha preso il potere ai contractor russi del Wagner Group (miliziani privati probabilmente collegati al Cremlino), rinunciando a un rinforzo della missione Onu (MINUSMA) e di quella europea (Takuba). Di più: la giunta golpista maliana è riuscita a prendere il potere perché sostenuta da una popolazione che accusa la missione militare francese “Barkhane” — che ha fatto da prodromo a quella europea e accompagnato l’impegno onusiano — di inefficacia nel contenere l’avanzata jihadista. Poi sono circolate accuse di nuovo colonialismo. Dinamica analoga successa in Burkina Faso. I mercenari russi, insieme ai soldati maliani, sono accusati di aver massacrato circa 300 civili a marzo: dicevano che erano collaborazionisti dei miliziani del jihad, quando invece molti di loro più che altro erano parte di un’etnia (i Pehul, o Fulani) che si oppone alla giunta di Bamako.

Se da un lato la Russia sta costruendo accordi  scellerati per sfruttare risorse estrattive di materiali particolari in cambio di armi da fornire a certe amministrazioni discutibili, un’attività che l’Occidente democratico trova abominevole di principio; dall’altro questo è ciò che permette a Mosca — e ad altri attori più spregiudicati e privi di troppe remore ideali, etiche, morali — di approfondire le proprie relazioni in alcuni Paesi dell’Africa. Allo stesso tempo, anche attraverso campagne di narrazione, propaganda e disinformazione, le collettività locali non percepiscono questo quadro, ma lo leggono esattamente all’opposto. Alle manifestazioni anti-governative in Mali o Burkina Faso si bruciavano tricolori francesi e si mostravano quelle russe (anche perché i russi sono stati protagonisti di attività di infowar molto spinta contro i francesi).

Parte del problema, sostengono Zainab Usman e Katie Auth del Carnegie Endowment, è che gli Stati Uniti e i loro alleati “si sono impegnati con l’Africa per decenni solo per questioni umanitarie e di sicurezza”, con interesse diretto — evitare che i miliziani africani attaccassero in Occidente. In un continente che ha il maggior numero di operazioni e avamposti militari stranieri, la popolazione giovane — e sempre più cinica dell’Africa — percepisce le politiche statunitensi incentrate certi aspetti e su Cina e Russia. Politiche in cui i Paesi africani sono visti come pedine nella partita a scacchi tra potenze.

D’altronde i numeri dicono che il commercio tra Stati Uniti e Africa ha continuato a diminuire, passando da 142 miliardi di dollari nel 2008 a soli 64 miliardi nel 2021. È vero che il rapporto dell’Africa con la Cina è fortemente squilibrato e ha scatenato ripetute proteste regionali (trappole del debito, sfruttamento eccetera), ma è anche vero che a volte i diplomatici occidentali sono miopi davanti ai benefici infrastrutturali che ha portato Pechino a Paesi democratici come il Senegal — dove i progetti Belt and Road della Cina hanno finanziato autostrade e centri culturali — oppure alle Seychelles, che corteggiano attivamente gli investimenti cinesi come parte delle ambizioni del Paese di diventare un hub finanziario.

Allo stesso modo in Occidente si fatica a comprendere che le sanzioni alla Russia aggravano le turbolenze economiche africane, che si legano anche all’avvelenamento del sistema di sicurezza alimentare globale prodotto dall’uso come forma di guerra ibrida del blocco del commercio del grano ucraino, deciso dalla Russia. È sulla base di questo che il continente muove le sue complessità, prodotte anche da interessi legittimi dei singoli Paesi.

Il presidente dell’Unione africana ha avvertito i leader dell’Ue che la loro decisione di espellere le banche russe dal sistema di messaggistica finanziaria SWIFT rischia di danneggiare le forniture alimentari al continente. Il senegalese Macky Sall, parlando in videoconferenza ai leader dell’Ue a Bruxelles, martedì 31 maggio, Sall ha riconosciuto che il blocco del porto ucraino di Odessa da parte della Russia ha danneggiato le esportazioni di prodotti alimentari ucraini e ha sostenuto gli sforzi delle Nazioni Unite per liberare il porto, ma ha aggiunto: “Vorrei anche dirvi che i nostri Paesi sono molto preoccupati per gli effetti collaterali dell’interruzione causata dal blocco del sistema di pagamento SWIFT”. Quando il sistema SWIFT viene interrotto, “significa che anche se i prodotti esistono, il pagamento diventa complicato, se non impossibile”. Il giorno precedente l’Europa aveva deciso di aggiungere la più grande banca russa, Sberbank, all’elenco crescente di istituti di credito da escludere dalla rete SWIFT (che ha sede in Belgio e facilita i pagamenti interbancari).

Il cibo è una valuta russa di influenza con gli Stati africani dipendenti, mentre alcuni come il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, ipotizzano che sia in atto un gioco più grande: armare la migrazione africana istigando la carestia in Africa per alimentare la migrazione verso l’Europa. Allo stesso tempo l’Ue deve affrontare complessi equilibri perché le proprie decisioni possono alterare mondo terzi come quello africano.

Alcuni governi africani hanno condannato le azioni della Russia in Ucraina. L’ambasciatore del Kenya alle Nazioni Unite, Martin Kimani, ha detto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu pochi giorni prima dell’invasione russa che “dobbiamo completare il nostro recupero dalle braci degli imperi morti in un modo che non ci faccia ripiombare in nuove forme di dominazione e oppressione”. Ma alla fine il Kenya, partner militare americano nelle operazioni contro il gruppo jihadista Shabab, si è astenuto dal votare la risoluzione onusiana di condanna contro Mosca perché, come Kimani stesso ha spiegato, Nairobi ha voluto evitare di essere trascinato nella rivalità tra potenze globali, affermando che il Consiglio di Sicurezza in futuro potrebbe apparire “armato”.

Rispondendo alle domande sulla neutralità africana, l’ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, ha affermato che “dobbiamo fare un lavoro supplementare per aiutare questi Paesi a comprendere l’impatto della guerra di aggressione della Russia sull’Ucraina”. È possibile che i leader africani debbano ricevere aiuto nel loro processo decisionale sovrano come sembra suggerire Greenfield, ma traspare anche un’incomprensione generale su priorità e necessità.

In un approfondito articolo su News Africa, lo storico ghanese Samuel Adu-Gyamfi, scrive che le forme di democrazia proposte dal modello occidentale hanno fallito nel continente. Secondo la sua analisi, le riforme economiche richieste da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno avuto un effetto negativo sullo sviluppo dei Paesi africani. È un giudizio severo, che però mostra uno spaccato: il risentimento per il neocolonialismo è alla base di buona parte dell’opposizione alle richieste occidentali.

Davanti a questo quadro in evoluzione, ricopre particolare interesse il piano di investimenti pubblici e privati per l’Africa annunciato a febbraio dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il white paper di partenariato strategico — che prevede  150 miliardi di euro investiti entro il 2027 — sottolinea una direzione in cui l’Europa intende andare, abbandonando il rapporto donatore-beneficiario — ossia sembra acquisire maggiormente consapevolezze, in forme in qualche modo simili a quanto sta accadendo con il Golfo.

Se il caso del Mali è stato eclatante, per certi versi simbolico di una certa fase attuale, altrove la collaborazione Europa-Africa procede. E va comunque sottolineato che — al di là di una percezione, come detto anche alterata da azioni di infowar —nel contenimento delle crisi le attività occidentali hanno un ruolo centrale. E però, gli africani chiedono di più, soprattutto all’Europa: è innanzitutto una ricerca di emancipazione dei rapporti, basata sul superamento della retorica datata con cui si descrive l’Africa come il continente delle guerre, delle carestie, della disperazione.

Durante il suo recente tour africano, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha annunciato che l’Europa si sarebbe adoperata per ripristinare le esportazioni di grano in Africa. Come fa notare Theodore Murphy, direttore dell’Africa Programme all’Ecfr, “non si è trattato solo di un atto umanitario di carità, ma di una decisione intelligente basata sugli interessi”, perché questo serve per rafforzare il partenariato Africa-Europa, e nel frattempo contrasta anche l’influenza della Russia. Scholz, orientato soprattutto a esplorare possibilità di approfondire la partnership commerciale con il Senegal (produttore in rapido sviluppo di Gnl, molto usato dalla Germania), ha cercato di parlare al continente in modo più ampio e più alla pari, quasi dimostrando consapevolezza che in un modo o nell’altro la partnership strategica tra Europa e Africa dovrà prima o poi approfondirsi.

L’Africa è l’unica regione del mondo in crescita demografica: entro il 2050 passerà da 1,2 a 2,4 miliardi di abitanti, e questo darà al continente un vantaggio strategico di vario genere, anche economico. L’età media attuale è inferiore ai vent’anni, e anche questo è un vantaggio determinante per il futuro. Diversi Paesi da anni sono in crescita economica costante (sebbene, come altrove, la pandemia abbia fatto sentire i propri effetti); molte democrazie sono in una fase emergente ma attiva; la vita culturale è vivace, lo sviluppo tecnologico spinto da idee e visioni innovative. In definitiva, l’Africa è molto di più del monolite appestato dalle crisi con cui viene in molti casi visto in Occidente e su cui altre potenze cercano di capitalizzare le proprie attività di sfruttamento.

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