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Per quale motivo la sinistra in Europa è in crisi? Eppure a inizio secolo era dominante. Nel Duemila quattordici dei quindici Paesi dell’Unione europea erano governati da, o con, partiti di sinistra. Da allora un lento declino con pochi sussulti: dopo i trionfi blairiani, l’ultimo dei quali nel 2005, si staglia solo il voto per il Labour party di Jeremy Corbyn che nel 2017 aveva riportato il suo partito oltre il 40% e a una incollatura dalla vittoria dopo un decennio di sconfitte; il ritorno al potere dei socialisti spagnoli con coalizioni varie nel 2004-2011 e poi di nuovo nel 2018; la lunga e luminosa stagione dei governi del Partito socialista portoghese; e infine qualche breve ritorno dei socialdemocratici in Scandinavia ma con percentuali lontane da quelle del passato.

Qualche lampo, quindi, ma niente più. In questo quadro complessivo si inserisce anche il caso italiano: un continuo affaticamento del maggior partito della sinistra, il Partito democratico. Dopo l’eccellente risultato ottenuto da Walter Veltroni nel 2008, che il partito incredibilmente demonizzò come una sconfitta perché la sua coalizione non aveva vinto, anziché esaltarlo come il migliore della storia alla pari con il voto comunista del 1976, è iniziata la china discendente. E la risalita rimane stentata. Allora cerchiamo di capire innanzitutto se ci sono state delle tendenze generali comuni alle democrazie occidentali, e poi le eventuali specificità italiane.

Contrariamente a quanto è stato scritto mille volte, non c’entra nulla il crollo del Muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica, la sinistra progredisce nel decennio successivo a quegli eventi. Le cause della successiva crisi sono di altra natura. Due sono le date simbolo del nuovo secolo: l’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria globale del 2007-2008, estesa e culminata in Italia nel 2011. La prima ha un impatto di lungo periodo sull’opinione pubblica occidentale: non è immediatamente visibile, ma scava in profondità. Produce un’insicurezza generalizzata e un sentimento di xenofobia, in particolare nei confronti dei musulmani di ogni provenienza geografica. Sentimenti che vengono politicizzati con determinazione dalle forze politiche di estrema destra e, alla fine, raccolte anche dalla destra mainstream. In più innescano polarizzazione, cioè aumentano la distanza tra le posizioni di destra e di sinistra e innalzano il calore dello scontro politico. Viene meno in misura crescente un terreno comune di incontro.

Di fronte a questi sommovimenti dell’opinione pubblica, la sinistra non ha saputo rispondere in alcun modo. Ha mantenuto la sua posizione umanista, ha richiamato al rispetto dei diritti civili per tutti, ha sollecitato l’integrazione degli immigrati, ha mantenuto l’apertura verso l’esterno come precondizione per un mondo pacifico: tutte posizioni in linea con la storia democratica e socialista, che tuttavia non hanno avuto la stessa forza evocativa di chi agiva non sui valori ma sulla paura e sul ripiegamento nel particolare, nel cortile di casa da difendere a tutti costi e in tutte le maniere. Rispondere a quella offensiva di tale potenza evocativa, articolata in un crescendo drammatizzante e terrorizzante – portano via il lavoro, rubano, assaltano, violentano e fanno stragi – era ed è difficile. Su questo terreno la sinistra è afasica o, peggio, sta iniziando a scimmiottare la destra. Non riesce ad articolare un discorso diverso e altrettanto efficace. In Italia ne abbiamo avuto la prova durante i recenti referendum in cui non è stata offerta alcuna immagine coinvolgente sull’opportunità di una rapida inclusione attraverso la cittadinanza. Nulla!

Questa deficienza si associa a quella sul piano economico-sociale, in linea di principio il terreno d’elezione della sinistra. Qui la catastrofe è stata completa. La grande crisi della fine del primo decennio ha messo a nudo le incoerenze che la sinistra stava inanellando una dopo l’altra. L’illusione di fine anni Novanta, l’idea di andare a occupare il centro del sistema, un neue mitte incardinato sulle socialdemocrazie diventate dominanti, perché dall’altra parte i conservatori erano in crisi privi del sostegno confessionale, ha portato al disastro: perché si basava sull’assunto che, copiando con qualche abbellimento le politiche dei partiti moderati, si potessero conquistare voti borghesi, mantenendo però stretti quelli popolari. Già allora molti si chiedevano come fosse possibile rimanere in sintonia con le classi popolari quando venne attuata una revisione, e a volte lo smantellamento, del welfare, dimostrando quindi di non credere in più in quella impalcatura protettiva dei ceti meno abbienti; e contestualmente partiva la demonizzazione dell’intervento pubblico abbracciando ingenuamente e con entusiasmo da neofiti le meraviglie del mercato. Come si poteva mantenere il tradizionale elettorato popolare senza offrirgli nulla, anzi?

Il risultato è noto: un abbandono rabbioso andando verso i nemici della sinistra. In parte proprio per un senso di “vendetta” per essere stati traditi da coloro ai quali si era data fiducia, in parte perché la destra estrema ha offerto a questi ceti un altro tipo di sicurezza diventato centrale, quello dai nemici venuti dall’esterno. La tenaglia tra abbandono del welfare e disinteresse o incapacità di offrire sicurezza sul piano fisico-territoriale alle componenti sotto privilegiate della società ha stretto le sinistre in una morsa. Hanno ridotto i danni solo grazie al voto borghese finalmente approdato, dopo un secolo, alla sinistra. Un successo epocale, dovuto però, non alle politiche economico-sociali come detto superficialmente da tanti senza alcuna dimostrazione, ma ottenuto sui valori universalistici e libertari che la sinistra ha espresso e difeso, soprattutto in Italia.

È da questa base di consenso, che rappresenta una svolta storica nella politica novecentesca, che si può recuperare, perché la sinistra interpreta e rappresenta quei valori di apertura e di libertà senza concorrenza. L’egemonia della sinistra nelle aree urbane, e soprattutto metropolitane in Italia come in Europa garantita da questi ceti, costituisce il piedistallo da cui partire per andare alla conquista dei voti popolari. Oltre a offrire risposte credibili di fronte alle loro insicurezze fisico-ambientali va prospettata una nuova politica economica finalmente pro-labour e non più solo pro-market. Su questo la sinistra dovrebbe essere molto tranchant ed evitare le timidezze e gli arretramenti del passato di cui Jobs act è stato l’apice. Non esiste un mitico centro da conquistare, ma esistono milioni di cittadini passati all’astensione per assenza di progetti coinvolgenti e credibili. Quello è il terreno sul quale agire, con la necessaria radicalità.

Formiche 216

Alle radici della crisi europea della sinistra. L'analisi di Ignazi

Di Piero Ignazi 

La sinistra interpreta e rappresenta quei valori di apertura e di libertà senza concorrenza. La sua egemonia nelle aree urbane, e soprattutto metropolitane in Italia come in Europa garantita da ceti borghesi, costituisce il piedistallo da cui partire per andare alla conquista dei voti popolari prospettando una nuova politica economica pro-labour e non più solo pro-market. L’analisi di Piero Ignazi, professore di Politica comparata presso l’Università di Bologna

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