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Compagna di vita e di lotte. Perché Tortora significa amore e dolore, ingiustizia e volontà di rivalsa. Parla con il garbo delle signore di un tempo lontano. Il suo è il ruggito di una leonessa che, da quella ferita mai rimarginata del lontano giugno ’83, intravede nei referendum sulla giustizia un balsamo per lenire – seppur lievemente – il suo dolore. Francesca Scopelliti, giornalista, ex parlamentare ma soprattutto compagna di vita di Enzo Tortora (il prototipo per eccellenza delle vittime di malagiustizia), non ha mai smesso di lottare. E ora, a distanza di una manciata di giorni dalle urne, non arretra di un solo millimetro. Perché “in questo Paese non è tollerabile che ogni anno ci siano ancora almeno mille errori giudiziari”.

Scopelliti, la sua battaglia continua. Cosa ci dovrebbe insegnare il caso Tortora oggi?

Il dramma che ha vissuto  Tortora deve essere trasmesso, come monito, anche ai giovani. Il passato non deve essere dimenticato. Anche perché la percentuale di errori giudiziari anche oggi è assolutamente intollerabile.

Qual è il quesito che le sta più a cuore?

Purtroppo, quello che non c’è. Il quesito che in assoluto ritenevo prioritario è quello “cassato” da Giuliano Amato: ossia quello legato alla responsabilità civile dei magistrati. Una richiesta che veniva direttamente dall’Unione Europea. Quella di Amato è stata una decisione puramente politica.

Di quelli ammessi, quale reputa di più stringente?

Quello legato alla valutazione dei magistrati. A mio parere una corretta attività di controllo sull’azione dei giudici costituirebbe il primo passo concreto per evitare gli errori. Sarebbe in una certa misura un “risarcimento sociale”.

Un risarcimento a chi?

Alla comunità nazionale. Una società senza vittime della giustizia è una società migliore. Spesso, secondo me, i magistrati non hanno piena contezza di quanto il loro ruolo e le loro decisioni si riverberino sulla vita delle persone. È tempo di introdurre criteri di meritocrazia e uscire dalla logica di auto-valutazione.

Il concorso in magistratura in Italia, è molto complesso. 

Sì, ma non basta. A mio parare i magistrati dovrebbero fare, prima di entrare nel pieno della loro funzione, almeno cinque anni di avvocatura in modo tale da rendersi conto di come vivono gli imputati. In questo modo, forse, potrebbero vivere a contatto con la realtà.

Lei ha militato, come Tortora, al fianco del leader radicale Marco Pannella la cui battaglia sulla separazione delle carriere fu memorabile.

Questo quesito, assieme a quello sulla carcerazione preventiva, mi stanno particolarmente a cuore infatti. D’altra parte, separare le carriere significherebbe muoversi nella direzione tracciata da Giovanni Falcone, il quale sosteneva che il Pm era l’avvocato dell’accusa. Quanto all’abuso della carcerazione preventiva, la mia idea è chiara: spesso è lì che s’innesta il principio dell’errore giudiziario.

Di questi referendum si parla meno rispetto ad altri appuntamenti elettorali. Come se lo spiega?

Molti imputano questo silenzio al “tecnicismo” dei quesiti proposti. La realtà, ai miei occhi,  è molto diversa. Questo silenzio è la dimostrazione di come il potere giudiziario sia ancora capace di condizionare politica e informazione. Ed è per questo che occorre andare a votare. E votare sì. Una battaglia per la libertà, e per svincolare la politica e l’informazione dal potere di influenza della magistratura.

Separare le carriere dei magistrati, nel nome di Falcone e Tortora. Parla Scopelliti

La compagna del giornalista vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari italiani: “Occorre votare sì ai referendum. È una battaglia per la libertà, e per svincolare la politica e l’informazione dal potere di influenza della magistratura”

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