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Fake news e cyberbullismo, autoregolamentazione dei social, Industria 4.0, Blockchain, Internet of things (IoT) e Artificial Intelligence (AI). Sono solo alcuni dei temi di grande attualità affrontati dall’ottava edizione del Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione (Wolters Kluwer). Temi che fino a qualche anno fa era impossibile associare al diritto e che invece oggi, anche quando non sono scritti nei codici, impegnano quotidianamente i tribunali, le autorità indipendenti, il parlamento e il governo.

L’autore, Ruben Razzante, insegna alla Cattolica di Milano, alla Lumsa e alla Pontificia Università della Santa Croce, e presenterà il volume a Milano domani, venerdì 27 maggio, con il presidente dell’AgCom Giacomo Lasorella e Giancarlo Leone, presidente dell’Associazione produttori audiovisivi (Apa). Con lui ho parlato di come fa il diritto a stare al passo con le rivoluzioni tecnologiche.

L’ultima edizione era del 2019, tre anni che sembrano trenta. Cosa è cambiato nel frattempo?

Abbiamo assistito a una improvvisa accelerazione dei processi di digitalizzazione, scatenata (anche) dalla pandemia. Questo libro vuole essere uno strumento per tutti, dalle aziende alle famiglie, per capire come la spinta verso tecnologie sempre più sofisticate possa conciliarsi con la salvaguardia dei diritti. Si tratta dei princìpi di base della cittadinanza digitale, nozioni e istituti che devono essere chiari a tutti. Da chi viene offeso su un commento online a una piccola associazione che viene hackerata, fino alle multinazionali che devono essere compliant con regole sempre più sofisticate.

A livello legislativo, tolto il piano europeo, non ci sono state novità epocali.

Il quadro normativo è cambiato, ma è a livello giurisprudenziale che assistiamo a una grande innovazione. Per questo nel libro si trovano molte sentenze (spiegate) che riguardano la tutela dei diritti in rete, dalla diffamazione al diritto all’oblio, dal copyright ai reati online. In questi anni sono state approntate tutele sempre più robuste per rendere internet meno una giungla. Sono ottimista sulla capacità del diritto di “inseguire” l’innovazione, ma non vuol dire che corriamo meno rischi: più la nostra vita si sposta online e più si moltiplicano i reati. Gli investimenti in cybersecurity devono essere in cima ai pensieri delle aziende.

Questa è anche la premessa dei due pacchetti legislativi più importanti degli ultimi vent’anni in materia tech: Digital Markets Act e Digital Services Act. Che però entreranno in vigore fra almeno due anni.

Il legislatore europeo si è posto il problema di riequilibrare l’infosfera, lo spazio virtuale, bilanciare diritti e doveri, libertà e responsabilità. È un esercizio fondamentale e che non si interrompe mai. Nell’attesa del pieno funzionamento di questi due regolamenti, i giudici ci danno una mano, anche con condanne esemplari. Basti pensare a revenge porn e cyber bullismo, due fattispecie che non erano neanche immaginabili e che invece oggi sono ben chiare: chi abusa della propria libertà online sa che rischia grosso.

Parliamo di AI Act, la proposta di regolamento che vuole disciplinare l’intelligenza artificiale. In questa occasione, le autorità nazionali e la Commissione hanno iniziato un dialogo con le aziende che stanno sviluppando queste tecnologie, mentre in passato l’approccio era più top-down.

Aziende e individui devono essere pronti a muoversi in questo mondo ancora tutto da scrivere. Lo spirito collaborativo tra privati e istituzioni pubbliche, che 5-6 anni fa mancava, oggi è più collaudato e c’è più sintonia sulla necessità di regolamentare – insieme – questo settore. I legislatori devono riuscire a produrre un testo che non sia già vecchio quando entrerà in vigore. Un esempio virtuoso: le imprese digitali hanno raccolto la sfida della lotta alle fake news, si sono seduti ai tavoli e hanno sottoscritto e rispettato il codice di autoregolamentazione approvato nel 2018 e aggiornato nel maggio 2021.

Esiste una certa confusione nell’enforcement. Sulle condotte online spesso hanno competenza il giudice ordinario, tre autorità indipendenti (AgCom, Antitrust, Privacy, le cui decisioni vengono poi impugnate al Tar e al Consiglio di Stato), la Commissione europea e poi la Corte di Giustizia Ue.

Questo accavallarsi di competenze si sta riducendo. Soprattutto, sono le aziende stesse che hanno potenziato le strutture di risposta agli utenti. Un esempio è il diritto all’oblio: la cosiddetta delinkizzazione si può ottenere direttamente da Google, in modo rapido ed economico, senza attivare lunghe procedure con i garanti o i tribunali. Le segnalazioni alle grandi piattaforme spesso bastano a risolvere controversie o tutelare diritti. Però è vero che in alcuni casi le armi dei cittadini sono spuntate, anche perché a volte chi pubblica contenuti illegali si trova all’estero ed è difficile da sanzionare. Serve una concertazione sovranazionale, quantomeno europea, per contrastare le grandi violazioni. I colossi, pur perseguendo interessi economici, sono sempre più attenti alle esigenze degli utenti. Se li deludono, perdono traffico e business. Hanno tutto l’interesse a sviluppare un ambiente sicuro e affidabile.

Di Twitter cosa pensa? Musk porterà a termine questa operazione (ormai troppo) costosa? E davvero smonterà anni di regole sulla moderazione dei contenuti in nome di una libertà quasi assoluta di espressione?

Sinceramente sono scettico sul fatto che andrà in porto. Non escludo che sia un’operazione di immagine e visibilità di un imprenditore-star. Questi proclami sulla libertà di espressione lasciano il tempo che trovano. Abbiamo fatto tanto per disciplinare la giungla delle opinioni. Ora non possiamo tornare indietro. La libertà è sacra ma va bilanciata con la tutela dei diritti della personalità – dignità, uguaglianza, onore, reputazione, immagine, ogni Paese ha la sua carta dei diritti fondamentali. Se decidiamo di depotenziare l’algoritmo, al limite affidandoci alle autorità giudiziarie per i casi più gravi, c’è il rischio che tutto ci sfugga di mano.

L’anno scorso abbiamo assistito al caso di Parler, app di social network che aveva smesso di controllare i contenuti. In poche settimane sono intervenuti Apple e Android, rimuovendola dai loro store, e infine Amazon Web Services che l’ha cacciata dai suoi server. Insomma, c’è sempre qualcuno che ti fa rispettare le regole.

Appunto. Twitter e il suo board non potrebbero permettersi di violare le regole di Apple e Android, o degli host su cui si appoggia l’app. Anche se Musk stravolgesse le regole di ingaggio, ci sarebbe sempre un “vincolo esterno” a tirare il freno. Alcuni parametri di moderazione sono ormai parte integrante della rete.

Tech & Law. Così il diritto (in)segue la rivoluzione digitale. Colloquio con Razzante

Come affrontare i nuovi reati online, la tutela della reputazione, le fake news? Come saranno regolati intelligenza artificiale, internet of things, blockchain? Ne discutiamo con Ruben Razzante, autore dell’ottava edizione del “Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione”, che presenta a Milano con Giacomo Lasorella (presidente AgCom)

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