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Alcune considerazioni alla luce dei risultati delle elezioni regionali di quest’anno che possono aiutare  a comprendere tre questioni essenziali: la perdita di rappresentanza del sistema, l’entrata definitiva in crisi della sedicente seconda repubblica, la necessità di un ritorno al dibattito politico che necessita di ripartenza del confronto e anche scontro dialettico tra identità politiche che, però, sappiano riconoscersi.

Il primo punto, al di là dei numeri dei partiti e delle coalizioni, vedono ormai scendere sotto la metà degli aventi diritto i votanti e questo è indice di instabilità: che senso ha un sistema che rinuncia alla rappresentanza e cerca semplicemente di consolidare minoranze sempre più ristrette che hanno bisogno dello scontro ideologico quotidiano? Solo un caso è andato in controtendeza, quello valdostano dove, infatti, il sistema è totalmente diverso e la partecipazione al voto ha raggiunto un 63%, ossia vige una legge elettorale proporzionale a preferenze, il voto del consiglio regionale è avvenuto nella stessa tornata di quello per i consigli comunali, non c’è a nessun livello l’elezione diretta dando un forte mandato ai rappresentanti eletti che, all’interno di assemblee forti, devono trovare equilibrio e programma per comporre maggioranze rappreesentative di almeno il 51 per cento dell’elettorato.

Laddove i sindaci sono diventati delle specie di podestà, i presidenti di regione si definiscono ormai governatori come se fossero negli USA, le assemblee elettive sono state depotenziate (e addirittura sottratte al voto universale come le provincie e città metropolitane, senza andare a toccare l’errore storico del taglio della rappresentanza popolare del parlamento italiano) e ridotte a palcoscenici di una polarizzazione ormai sopra le righe come una tragedia che tende spesso alla farsa e ideologica, l’astensione sta intorno mediamente al 55% con una notevole prevedibilità del risultato essendo ormai questo un sistema territoriale ritornato al notabilato di tipo ottocentesco, quando non addirittura al sistema feudale, in assenza di una politica con strumenti solidi come forgiatasi in questi trent’anno e rispetto a cui, ormai, si può considerare realizzata la valutazione che ne diede, in una sua intervista che apparve su Avvenire, il segretario nazionale DC/PPI Mino Martinazzoli: “Per la verità, molto spesso, mi sembra di capire che quando enfatizziamo la seconda repubblica non parliamo di qualcosa di nuovo ma della decadenza del vecchio. A onor del vero io, comunque, me ne intendo poco perché mi sono sempre dichiarato un apolide della seconda repubblica”.

Potremmo dire che assistiamo alla degenerazione finale che proprio Martinazzoli, tra i pochi che negli anni hanno fatto una resistenza per salvare il pensiero popolare, per quanto riguarda la presenza organizzata dei cattolici cercò di frenare sia schierandosi contro la linea indicata da Pietro Scoppola e da Romano Prodi tendente al bipolarismo, al “o di qua o di là” anche dai tono assai moralisteggianti sia non sostenendo l’idea di molti ex democristiani della mera soppravvivenza individuale andando a servizio altrui e ritrovandosi su grandi temi, rispetto a cui tutti hanno poi perso l’indirizzo del ritrovo.

C’è poi un elemento fondamentale per capire come sia stato possibile questa messa in crisi della rappresentanza senza la quale si riduce la partecipazione, che è stata, quest’ultima, oggetto, slegato dalla prima, della Settimana sociale di Trieste: nella seconda repubblica, dai calcoli di destra e sinistra, tutto è stato sacrificato sull’altare della “stabilità” per cui si è ritenuto accettabile perdere quello che Aldo Moro definiva dinamismo della democrazia: dove sta il problema che può vivere, se è formato politicamente, già qualsiasi consigliere comunale in qualsiasi comune italiano?

La stabilità di per sé è un pregio ma non è un valore assoluto per un sistema politico, altrimenti bisognerebbe ammettere che le migliori soluzioni sarebbero i regimi meno o per nulla democratici. Perchè i poli che si scontrano fanno fatica a comprenderlo?

Forse perché sono pure succubi delle influenze internazionali, in particolare finanziarie, essendo deboli causa rispettive radici ideologiche.

Tutto ciò premesso che va nella direzione di una linea coerente ideale e programmatica legata al popolarismo che con don Luigi Sturzo combatté un simile sistema attraverso il pieno sostegno al sistema elettorale proporzionale, va evidenziato che, a differenza della posizione espressa dall’on. Nazario Pagano a Formiche, “Il proporzionale conviene a tutti. Premierato? Entro la legislatura”, il proporzionale deve essere innanzitutto un principio ispiratore per uscire dalla crisi di questo lungo tempo di sfibrante transizione che ha fatto perdere all’Italia il suo stesso peso europeo ed internazionale anche slegandosi dalla tradizionale linea geopolitica aderente a quella vaticana.

Per questo serve non falsare tale principio con una legge che impone la conquista della maggioranza dei seggi non attraverso il confronto libero post elezioni con le indicazioni e la forza espresse dagli elettori ma con un premio di maggioranza conquistato da una minoranza in grado di aggregare un 40/42% di voto. Si vuole far sparire la fatica democratica che in Valle d’Aosta si dimostra ancora premiante!

Conseguentemente questo ragionamento porta a galla tutti i problemi di un ulteriore irrigidimento di sistema attraverso la proposta del premierato (ci fu anche chi propose in passato l’ipotesi definita del “sindaco d’Italia” mutuando a livello nazionale il sistema dei comuni, che pari sarebbe) che sarebbe l’apoteosi della personalizzazione e verticalizzazione che ha contribuito alla disaffezione ad ogni livello, con un  problema in più: si andrebbe verso un simil sistema francese che si sta dimostrando rigido e incapace di attutire le crisi e assumere le istanze politiche e sociali nelle istituzioni.

Serve guardare all’Europa continentale e della rappresentanza proporzionale (i tedeschi hanno il principio proporzionale in Costituzione: non sarebbe la più grande riforma contro la crisi di sistema insieme al ripristino dell’elezione di sindaci e presidenti delle Regioni da parte dei rispettivi consigli?) e per far questo serve appellarsi all’unico mondo che ha un pensiero, una consistenza, una rilevanza che fin qui è stata tenuta divisa dalle polarizzazioni di destra e sinistra, ossia quello cattolico che manca, però, per ora, di consapevolezza.

Proporzionale e parlamentarismo, rappresentanza e dinamismo democratico guardando ad una Europa da riformare e consolidare anche attraverso queste scelte nazionali, non intrappolata nella falsa dicotomia tra liberalismo tecnocratico e nazionalismo autoritario, senza identificarla esclusivamente nell’escludente ideologia progressista, ritrovando il bandolo della tradizione democristiana come ben evidenziato da Federico Ottavio Reho nel testo “Consevative Europeanism: in focus. A forgotten tradition” per il Wilfried Martens Centra for Europeans Studies. 

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