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Questi mesi saranno difficili per l’Italia. Ma saranno mesi ancor più difficili per gli italiani. A prescindere dal proprio personale orientamento politico, ciascun italiano che leggerà i giornali dovrà accettare, più o meno passivamente, affermazioni, notizie, approfondimenti e dichiarazioni cui più nessuno crede ormai da tempo.

Dovrà più o meno tollerare che, per ragion di Stato, la propria intelligenza e la propria memoria vengano subissate da messaggi contrastanti, accettando accuse reciproche, statistiche parziali, fughe di notizie, alleanze improvvisate.

Non è un fenomeno nuovo, e la sua fama non si limita al territorio della penisola, così come dimostrato anche dall’approfondimento che il Washington Post ha pubblicato sulla nostra condizione nazionale e che esordisce affermando che “la politica italiana ha una sorprendente somiglianza con le telenovelas sudamericane: piene di episodi di amori non corrisposti, accoppiamenti bizzarri e rotture multiple.”

A ben vedere, si tratta di uno schema che più o meno si reitera sempre uguale da decenni, al punto da divenire, nei fatti, quasi “normale” agli occhi dei cittadini, che un po’ simpatizzano, un po’ ricercano la loro personale interpretazione del “meno-peggio”, e un po’ si disinteressano. Ed è uno schema che può essere arrestato soltanto in un modo e in un modo soltanto: con la demografia.

Quando si parla di demografia, si cita spesso il progressivo incremento dell’età media degli italiani, così come altrettanto frequentemente sono elencate le problematiche di una popolazione con sempre più anziani e sempre meno giovani. Si citano i dati, e se ne riconosce il fenomeno dal punto di vista “numerico”, ma soltanto raramente si riflette sulle conseguenze che tale fenomeno genera nella nostra vita quotidiana. La distribuzione delle età, infatti, non incide esclusivamente sulla sostenibilità delle pensioni, sulla crescita produttiva e sulle problematiche legate all’incremento degli anni trascorsi in pensione e le politiche di invecchiamento attivo.

Riguarda piuttosto la conformazione dell’intera società, la scelta aggregata dei consumi, gli interessi, le scelte abitative. Si immagini, ad esempio, due piccoli comuni, il primo con una popolazione costituita principalmente da over-50, e il secondo in cui le fasce più popolose sono quelle che vanno da 0 a 30 anni. Si pensi ora alle cose più banali e quotidiane: dalle vetrine dei negozi, al modo di trascorrere il tempo libero, dalla vivacità delle strade alle tipologie di iniziative imprenditoriali. In questo confronto immaginario ci si può anche concedere di scivolare negli stereotipi: tatuatori contro punto a croce, piccole discoteche contro circoli sociali e partite a carte. Si pensi alle pubblicità, ai para-pedonali, agli argomenti di conversazione al bar. Tutto, sarebbe completamente differente.

È chiaro che questo esercizio pindarico non ambisca in nessun modo ad essere “realistico”: l’utilizzo dell’iperbole è piuttosto funzionale ad evocare due società completamente distinte, condizione che, quando si parla di demografia, non sempre viene sufficientemente evidenziata.

In una società giovane, tutto sarebbe differente: dall’età media dei politici, al modo stesso con cui i politici cercherebbero di ottenere la fiducia dei cittadini. Non riguarderebbe soltanto il più o meno poderoso ricorso ai social network, riguarderebbe altresì i temi che vengono percepiti come importanti dalla popolazione, e le modalità attraverso le quali tali temi verrebbero approfonditi.

E per chi lo stesse pensando, inserire, nel nostro attuale sistema italiano degli under35 all’interno della politica non è di certo una soluzione. Perché in un Paese giovane, le nuove generazioni di politici non dovrebbero “adattarsi” a sistemi estremamente stratificati: non avrebbero la sensazione di dover trascorrere un periodo di apprendimento e di costruzione di relazione per i successivi 30 anni della loro carriera, e, soprattutto, parlerebbero ad una società giovane, con la quale condividerebbero quindi interessi, speranze, problematiche.

L’Italia, però, non è un Paese abitato da una maggioranza giovane: secondo l’Eurostat, nel 2021, è stato il Paese con l’età media più alta in Europa, 47,6 anni, con più di un quinto della popolazione over65. Questa struttura demografica si riflette, inevitabilmente, nelle trasmissioni televisive, nelle vetrine dei negozi, nei cartelloni, tanto pubblicitari quanto teatrali, e, soprattutto, nel nostro modo di fare e di comunicare la politica.

Di certo, in queste condizioni, non si può certo pensare di rivoluzionare l’intera popolazione nazionale, ma altrettanto certamente fare in modo che, nel medio periodo, gli under20 possano essere più numerosi degli over65 è un obiettivo perseguibile e che implicherebbe, necessariamente, la riduzione dell’età media in cui le donne hanno un primo figlio, condizione che, a sua volta, da un lato richiederebbe una maggiore stabilità economica, e dall’altro, implicherebbe anche un incremento del “peso” decisionale di tali future generazioni.

Sicuramente è da considerare che il processo di invecchiamento è un processo che non riguarda solo l’Italia, ma è un processo che, a dire il vero, coinvolge tutti i Paesi economicamente più sviluppati.

Si potranno citare statistiche che dimostrano come i Paesi con l’età media più bassa siano anche Paesi che di certo non “brillano” per stabilità economica. Per quanto tali riflessioni vadano in ogni caso inquadrate in una riflessione più ampia, si ritiene che a prescindere dalle stesse, la constatazione che il nostro sistema sociale, che tende inesorabilmente ad un sempre maggiore invecchiamento della popolazione, è un sistema sociale destinato all’autodistruzione.

E che la nostra politica, piuttosto che rappresentare una strada verso la soluzione, pare invece adagiarsi sul problema, lasciando che anche questa tematica spinosa venga trasferita non tanto alle “nuove generazioni”, quanto piuttosto alle prossime generazioni di anziani.

Campagna elettorale e demografia. Perché parlarne

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