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Frizioni tra Paesi europei sul versante energia ed embargo. Dopo che la Germania ha fatto inversione a U, dichiarando che avrebbe sostenuto il blocco graduale al petrolio russo, mercoledì l’Ungheria ha minacciato di usare il potere di veto per bloccare il sesto pacchetto di sanzioni che Ursula von der Leyen aveva appena finito di presentare. Anche la Slovacchia si è intraversata, assieme alla Repubblica ceca e altri Stati, ma c’è ragione di credere che si possa arrivare a un accordo.

LE RESISTENZE ALL’EMBARGO

La proposta della Commissione – su cui stanno discutendo gli Stati membri – mira a bloccare l’acquisto di petrolio russo senza fare troppo male alle economie europee. L’embargo entrerebbe in vigore da qui a sei mesi per il greggio, a fine 2022 per i prodotti raffinati, ed è prevista una deroga per Slovacchia e Ungheria che gli consentirebbero di acquistarli fino al 2023.

I due Paesi non sono ancora d’accordo: entrambi dipendono totalmente dal petrolio russo via oleodotto e non dispongono di sbocchi sul mare per accogliere le petroliere. Il primo vorrebbe un altro anno, il secondo sembra ancora più intransigente, anche se in riunione non avrebbero espresso posizioni definitive: possibilmente le loro posizioni sono una tattica negoziale per ottenere delle concessioni. La presidenza francese dell’Ue punta a un accordo alla prossima riunione del Coreper, venerdì 6 maggio.

LA STRATEGIA MARITTIMA

La Repubblica ceca ha lo stesso problema di Slovacchia e Ungheria, ma si sta dimostrando più morbida. Altro discorso per Grecia, Malta e Cipro, che invece sono contrariate da una misura-chiave nel sesto pacchetto di sanzioni: il divieto alle navi battenti bandiera europea (o controllate da enti europei) di trasportare petrolio russo, un commercio lucrativo per i tre Paesi mediterranei, e offrire servizi (finanziari, assicurativi…) alle compagnie russe.

Gli altri membri del Coreper credono di poterli convincere. Anche perché questa misura, spiega Politico, è essenziale per infliggere veramente del dolore economico al commercio di petrolio russo. L’Ue è il principale acquirente, e questi nuovi divieti renderanno molto difficile a Mosca ridirezionarlo verso l’Asia. Un po’ come gli Stati Uniti hanno fatto con l’Iran, imponendo sanzioni che di fatto hanno reso “tossico” il petrolio iraniano sul mercato internazionale.

IL COSTO PER GLI EUROPEI

Va da sé che un embargo di questo tipo avrà ricadute anche sulle tasche dei cittadini europei. Ma gli analisti credono che l’impatto sarà contenuto: se ne parla da mesi, gli economisti tendenzialmente l’hanno già considerato nelle loro valutazioni e dunque il prezzo del petrolio al barile non dovrebbe impennarsi in seguito alla decisione europea.

Ludovic Subran, capo economista di Allianz, crede che i produttori non russi dovrebbero riuscire a coprire la nuova domanda europea – il 25% delle importazioni Ue sono russe – con relativa facilità. Secondo lui il prezzo al barile dovrebbe arrivare massimo a 150 dollari al barile e l’impatto finale sulle famiglie europee dovrebbe ammontare a circa 100 euro l’anno.

L’impatto sarà più dirompente per i settori che fanno affidamento sul diesel, come l’agricoltura e il trasporto, dato che metà delle importazioni europee sono russe. È probabile che l’entrata in vigore del pacchetto di sanzioni farà scattare il prezzo del diesel verso l’alto, in maniera non dissimile a quanto succede da mesi con quello del gas naturale.

IL COSTO PER IL CREMLINO

La Russia fatica a piazzare il proprio petrolio da inizio invasione: temendo l’impressione negativa, le compagnie occidentali e non solo si stanno già auto-sanzionando. Con il risultato che il Cremlino è costretto ad abbassare i prezzi per ingolosire i potenziali acquirenti (come l’India, che ne sta comprando di più). Oggi l’indice Urali, il riferimento del petrolio russo, è più basso di circa 36 dollari rispetto al Brent.

Già la Russia guadagna meno: al momento il prodotto russo costa circa 76 dollari, a fronte di un costo di produzione di circa 42. Le sanzioni europee, secondo i calcoli della Commissione, dovrebbero gravare ulteriormente sulla sua attrattività. Questo va bilanciato con il probabile incremento dei prezzi del petrolio, che nel breve e medio periodo – ossia, finché l’embargo europeo non si fa sentire – potrebbe favorire Mosca.

Ad ogni modo, il petrolio rappresenta il 21% delle esportazioni russe, di cui la maggior parte finisce (finiva?) in Ue o Usa, che hanno già imposto un embargo. Secondo gli analisti, se l’Europa riuscisse a seguire l’esempio americano, la capacità del Cremlino di finanziare la guerra in Ucraina subirebbe un colpo a dir poco devastante.

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