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Con la sentenza n. 28 dello scorso 11 marzo, la Corte costituzionale ha emesso un primo pronunciamento riguardo alla situazione venutasi a creare fra Stato e Regione Sardegna riguardo alla realizzabilità, nell’isola, di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (Fer).

La vicenda è nota, nei suoi termini essenziali: con la legge della Regione Sardegna n. 5/2024 è stata introdotta una moratoria, cioè il divieto di installare impianti Fer per diciotto mesi, nelle more dell’approvazione della legge regionale di individuazione delle aree idonee.

A distanza di pochi mesi, la stessa Lr n. 5/2024 è stata abrogata dalla Lr Sardegna n. 20/2024, che – nell’assolvere il compito di individuare le aree allo scopo idonee (attribuitogli da un Dm statale, in parte sospeso dal Consiglio di Stato) – ha previsto criteri molto stringenti che rendono di fatto inidoneo quasi tutto il territorio regionale. Anche la Lr n. 20/2024 è stata impugnata dallo Stato dinanzi alla Corte costituzionale.

Con la sentenza n. 28/2025 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della Lr n. 5/2024 nella parte in cui ha introdotto la moratoria anzidetta, per violazione dei principi introdotti dall’art. 20 del d.lgs. n. 199/2021: anzitutto, quello afferente al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione al 2030. Poiché il d.lgs. n. 199/2021 ha recepito la direttiva 2018/2001/Ue, il divieto di cui alla Lr n. 5/2024 avrebbe infatti compromesso gli impegni assunti dallo Stato italiano nei confronti dell’Unione europea volti a garantire la massima diffusione degli impianti da fonti di energia rinnovabili.

Sarebbe riduttivo attribuire alla decisione della Corte costituzionale una valenza circoscritta alla questione sarda. Essa, piuttosto, si presta a fare da sfondo per diversi importanti temi di scala nazionale che posso in questa sede soltanto indicare.

In primo luogo, in Paesi come l’Italia dove vento e sole non mancano ma non sono uniformemente distribuiti sul territorio, dovrebbe trovare più spazio nel discorso pubblico, come nelle leggi statali e regionali una prospettiva “forte” di solidarietà energetica nazionale, anche a fronte di congegni perequativi più avanzati (in questo senso, la recente Lr Friuli offre spunti interessanti).

In secondo luogo, si pone il tema dell’accesso tanto alle autorizzazioni quanto agli incentivi. Occorrono sistemi di tipo selettivo. La logica del modello Italia non può essere quella di autorizzare un progetto qualunque, né di ammettere alle aste un operatore qualunque.

Per riflesso, non ha senso ammettere alle aste chi non abbia almeno ottenuto la Via (e infatti questa è stata la scelta fatta), ma neppure impegnare la capacità amministrativa (non infinita, né portabile a infinito) degli uffici statali e regionali che si occupano di permitting – in modo indistinto, indifferenziato e piegato a logiche un po’ singolari di eguaglianza nella diversità – su una platea di aspiranti alla Via che va da chi, verosimilmente, non ha mezzi (e non di rado neppure intenzione) per realizzare ciò che, tuttavia, domanda gli venga autorizzato, e quanti hanno invece, non meno verosimilmente, progetti che danno la misura dei mezzi e delle intenzioni.

È il caso di impegnare allo stremo la capacità amministrativa, in sede di permitting, su numeri così grandi da essersene disperso il significato effettivo, sul piano sistemico (cioè del modello di mix energetico in concreto perseguito dal Paese)? Con l’effetto, ulteriore, di consentire la partecipazione alle aste a chi, cartolarmente, ha sì ottenuto la Via, ma non ha, verosimilmente, mezzi o intenzioni di realizzare in concreto gli impianti?

Perché, seppure in mezzo a difficoltà note, gli iter di Via proseguono. Non è azzardato stimare che la giacenza attuale di circa 1600 istanze di Via da processare si ridurrà, entro fine 2026 (coincidente con la fine del mandato dell’attuale Commissione Pnrr Pniec del Mase), alle 400 richieste circa che la stessa Commissione trovò sul tavolo, già accumulatesi nei mesi precedenti, il giorno del suo insediamento, a inizio 2021. Tendono a dirlo i numeri.

Nel 2024, i pareri resi sono stati circa 340 (l’incremento netto rispetto al passato è l’effetto dell’esaurimento delle istruttorie sui progetti Pnrr, tutte concluse senza neppure un giorno di ritardo). Nel 2025, si sta procedendo ad un ritmo che, se mantenuto con i soli 54 commissari rimasti in carica, è stimabile conduca a circa 500 pareri e a superare largamente la soglia dei 20 GW equivalenti (lo scorso anno, si è arrivati a quota 19 GW). Con il completamento della Commissione, raggiungendo cioè il previsto numero di 70 componenti, è realistico stimare, per il 2025 e il 2026, oltre 600 pareri per anno.

Un grande sforzo, ma in (significativa) parte inutile. Troppa ingiustificata distanza – dovuta al vuoto iniziale di sistemi di filtraggio delle richieste di Via, in parte colmato dal Dl dello scorso dicembre, con effetti che non si vedranno tuttavia nell’immediato – fra gli 80 GW che l’Italia si è impegnata a installare entro il 2030 e i 350 GW corrispondenti all’insieme delle richieste di connessione a Terna (e il numero, di poco inferiore, cui corrispondono quelle 1600 istanze). Una distanza, questa, che la mortalità di tipo fisiologico dei progetti non riuscirebbe comunque, da sola, a riempire, e quindi a spiegare.

Da questo punto di vista, il centro gravitazionale della discussione pubblica deve sempre restare il numero che esprime il volume di potenza installata che l’Italia si è impegnata, sul fronte internazionale, a raggiungere entro il 2030. Non altri numeri. Non, in particolare, quelli che esprimono il volume della richiesta di connessione alla rete oppure il volume della domanda di autorizzazioni (a iniziare dalla Via).

A seconda che si usi il primo numero o gli altri due, vi è il rischio di concorrere a creare o alimentare tensioni o allarmismi nei territori. In questo senso, le dichiarazioni dei giorni scorsi del ministro Pichetto Fratin, del presidente Besseghini dell’Arera e dell’ad di Terna, Di Foggia, rappresentano un dato importante.

Si può aggiungere un’ulteriore motivo di riflessione: parossisticamente, è sul grande sforzo in (significativa) parte inutile degli uffici pubblici che svolgono a livello statale gli iter autorizzativi che va a impattare anche il fattore contenzioso, aumentando in modo involontario la confusione. Per un verso, in ragione di un approccio formale delle corti giudicanti sui termini dei procedimenti (rectius, di tutti indistintamente i procedimenti), che ha l’effetto pratico di denegare il sistema, per così dire, prioritaristico stabilito dalla legge, contraddicendo in fatto la pur dichiarata volontà di ispirare le proprie decisioni all’impegno assunto dall’Italia in ordine al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione al 2030.

Per altro verso, non avendo ancora colto, quelle stesse corti giudicanti, che tanti fra quanti ottengono una sentenza che intima di emettere il parere sul progetto originario, nel frattempo e parallelamente, in sede amministrativa, lo hanno cambiato: in che modo andrà attuata la decisione del giudice, in questi casi? Emettendo il parere sul progetto originario o su quello modificato?

Infine, è da evidenziare che tensioni e allarmismi territoriali devono a loro volta necessariamente misurarsi con i dati reali riguardo alla sorte dei progetti: nell’intero 2024, in Sardegna, sulla metà dei progetti di solare sottoposti a Via in sede statale, il parere è stato negativo. Nei primi mesi del 2025, sull’eolico onshore, sempre in Sardegna, l’esito è stato lo stesso. E le Lr non hanno avuto un peso, in questo: semplicemente non sono possibili equazioni semplificate fra numero dei progetti presentati e numero degli impianti che saranno realizzati e messi in esercizio.

C’è un tema Sardegna, certamente. Ma, altrettanto certamente, anche di più.

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