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Sarà il caldo, sarà il chiasso dei turisti che già sciamano in lungo e in largo per l’Italia. Claudio Petruccioli, il raduno, lo organizzerebbe “nell’eremo di Camaldoli”. Lì tra quelle mura benedettine, l’ex presidente della Rai, parlamentare per più stagioni, vorrebbe tenere “una settimana spirituale con i conduttori dei talk show italiani”. Per capire, sospira, “quanto dietro la loro condotta si celi la loro voglia di popolarità, potere, guadagno”. Petruccioli riflette così, un po’ serio un po’ cupo, sui tappeti rossi che la tv nostrana, pubblica e non, sta stendendo ogni giorno alla propaganda russa, mentre l’Ucraina continua ad essere invasa dalle truppe di Vladimir Putin.

Un ritiro spirituale. Non le sembra un po’ esagerato?

Se fossi in Rai l’avrei già organizzato. Perché tanto più del servizio pubblico è giusto conoscere i veri obiettivi. Popper, in uno degli ultimi scritti, proponeva una patente per chi fa tv. Non dico di arrivare a tanto ma…

Si riferisce alla propaganda di Mosca?

È un triste spettacolo. In tv, sulla nostra tv, anche la guerra è ridotta a par condicio. Ma il compito dell’informazione non è solo garantire il pluralismo. È ricostruire i fatti concreti, dare all’ascoltatore elementi per valutarli.

E invece?

Invece tutto diventa opinione. In Italia, tanto nell’informazione quanto nella politica, si fa strada la dittatura delle opinioni.

Uno vale uno. C’è chi ci ha costruito un partito.

Questa è solo l’ultima puntata. È un problema più radicale, di leadership. Sia i politici, sia i conduttori tv e i giornalisti non vogliono essere leader ma follower. Si diffonde così la cultura politica del traino: inseguire a tutti i costi ciò che, spesso sbagliando, si presume sia prevalente nell’opinione pubblica del Paese.

Restiamo alla guerra. Cosa si aspetterebbe?

Un primato dei fatti sulle opinioni. E i fatti di questa guerra non sono opinabili: la notte del 24 febbraio la Russia ha invaso e bombardato con le sue truppe l’Ucraina e da lì non ha più smesso. Si può discutere o meno sul conflitto congelato da anni in Donbas, non sui fondamentali della guerra russa. Che è una violazione aperta di ogni principio di legalità internazionale.

Eppure in tanti con Mosca vogliono parlare. Ha visto la diretta di Massimo Giletti?

No, ho evitato di prestarmi allo spettacolo: non voglio essere complice. Mi è bastato sentire in differita l’intervento di Sallusti.

Tutta colpa dei conduttori?

I conduttori che si offrono a queste operazioni hanno una colpa: scambiare il pluralismo col dare spazio a qualsiasi tesi, anche quelle che offendono l’intelligenza, è una forma di depravazione.

Allora è colpa dei talk show? Sul format anche l’Ad della Rai Carlo Fuortes ha espresso perplessità di fronte al Copasir…

I talk show, per come la vedo io, sono solo show. Uno spettacolo che, nelle intenzioni di conduttori ambiziosi, si traduce in audience. Al confronto i vecchi reality show sono un gioco da bambini: in quel caso almeno l’ingenuità è dichiarata, dall’inizio.

Sul banco degli imputati rimane la politica. C’è un motivo se l’Italia è permeabile alla propaganda? O l’era Draghi sta invertendo il trend?

Draghi è un leader, non un follower. Mostra un ancoraggio alla realtà dei fatti, anzi dei dati, anche quella meno consolante. Afferma il primato della realtà e l’obbligo della responsabilità, l’esatto contrario di un demagogo. Ma queste sono magre consolazioni.

Perché?

Perché più che un’era, quella di Draghi è una parentesi. Il sospiro di sollievo che in molti hanno tirato alla rielezione di Mattarella al Quirinale farà presto spazio ad altri sospiri. Non è vero che non si torna indietro. In tanti, già oggi, stanno remando in quella direzione.

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