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Nel corso della vicenda che ha portato all’elezione bis di Sergio Mattarella, il termine che più ha fatto ricorso nelle dichiarazioni dei leader e sui media è stato “condivisione”. Una sorta di Araba Fenice da tutti invocata, più o meno ipocritamente ricercata, e poi clamorosamente deflagrata sulla candidatura di parte di Elisabetta Casellati. Sappiamo com’è andata.

La condivisione è stata appunto ricercata oppure negata ma è stata al centro del dibattito e del confronto tra forze politiche. Alla fine è stata raggiunta quasi per disperazione, perché era fuggita nell’iperuranio, con la rielezione del capo dello Stato in carica. Il che ha determinato anche l’obbligatorio imbullonamento a Palazzo Chigi di Mario Draghi, che guida la condivisione più importante di tutte, quella della maggioranza di governo di larghe intese, pseudo miracolo realizzato un anno fa su input dell’ inquilino del Colle: e così il cerchio si chiude.

Non è difficile comprendere perché la condivisione così agognata e assolutamente necessaria in una fase delicata come quella che stiamo attraversando, sia al tempo stesso così difficile da afferrare e gestire. L’attuale Parlamento infatti è frutto del clima politico scaturito dall’elezione del 2018, quelle della valanga grillina e delle Camere da aprire “come una scatoletta di tonno”. La legislatura è nata all’insegna dell’ annichilamento del “nemico” che poi era il sistema politico nel suo insieme, i partiti che l’avevano praticato e se ne erano nutriti, il venticinquennale bipolarismo che aveva caratterizzato il Paese. C’erano già strati i prodromi nell’ elezione precedente, quando i 5 Stelle avevano innalzato la bandiera dell’isolamento per non contaminare la loro purezza nel rapporto con le altre forze politiche. Nel 2018 però l’onda grillina era diventata uno tsunami capace di sommergere tutto e tutti. Che poi si sia spiaggiata sulla sfida della governabilità è storia recente e piuttosto istruttiva.

Ma l’onda grillina a sua volta poggiava su un sentiment che aleggia da sempre nel bipolarismo all’italiana, fondato sulla demonizzazione e delegittimazione dell’avversario e che aveva nel Totem berlusconiano il suo altare sacrificale.

Siamo il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini, si è soliti dire: dunque nessuna sorpresa, la divisività è nel nostro Dna di italiani. E poi il nemico è il miglior collante possibile nel Palazzo: se il confronto politico è determinato dalla litote come discriminante e l’unica divisa da indossare è di non essere questo o non essere quello, è evidente che la contrapposizione e la bandiera identitaria finisce per basarsi esclusivamente sulla differenziazione rispetto all’altro. Quale dialogo e confronto costruttivo possa nascere in simili condizioni è facile capire.

Ma proprio la kermesse quirinalizia ha messo a nudo come un tale modo di intendere il dibattito politico sia una condizione asfittica e inconcludente. L’identità non può che costruirsi “per” fare qualcosa e “per” raggiungere determinati obiettivi: il “contro” non può che giocare un ruolo marginale anche perché se coltivato come privilegiata modalità d’azione, non funziona. Vedi appunto il default di Casellati o anche l’antiberlusconismo viscerale prima praticato, poi rinnegato, poi riemerso e adesso di nuovo archiviato in vista di future combinazioni di maggioranze di governo magari all’ombra di un nuovo sistema elettorale proporzionale.

La divisività è particolarmente patologica nel momento in cui si affrontano emergenze come la lotta al Covid oppure la “messa a terra” del Pnrr. Si tratta di sforzi giganteschi che nessuno schieramento, peraltro in via di dissoluzione, può affrontare da solo. Vale per questo finale di legislatura e chissà anche per la prossima. Accantonare la divisività non significa rinunciare alle proprie idee o annacquare la propria identità. Al contrario significa riconoscere che solo la modalità del confronto senza barriere ideologiche può funzionare. La parabola dei 5 Stelle è particolarmente significativa sotto questo profilo. Ma non è l’unica.

Se il morbo della demonizzazione dovesse tornare a riemergere, allora lo sforzo riformista che è il pilastro costitutivo dell’esperienza governativa di Draghi, rischierebbe di essere vanificato. Non ne vale la pena.

Così il Quirinale ha messo a nudo la politica. Il mosaico di Fusi

Accantonare la divisività non significa rinunciare alle proprie idee o annacquare la propria identità. Al contrario significa riconoscere che solo la modalità del confronto senza barriere ideologiche può funzionare. La parabola dei 5 Stelle è particolarmente significativa sotto questo profilo. Ma non è l’unica

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