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Si è conclusa l’elezione del tredicesimo presidente della Repubblica italiana. Il Parlamento ha riconfermato Sergio Mattarella, una guida affidabile a cui gli italiani riconoscono fiducia, che però aveva comunicato in tutti i modi la volontà di congedarsi. C’è amarezza. Un’amarezza che deriva dall’incapacità del Parlamento di cogliere le aspettative di cambiamento che molti, me incluso, riponevano in questa elezione. Sempre più cittadini reputano l’alchimia democratica del nostro Paese incomprensibile. Cerchiamo di fare chiarezza.

La destra, primo gruppo in Parlamento, ha traccheggiato per mesi con Silvio Berlusconi. Mario Draghi, mentre guidava il Governo, era il candidato in pectore e la sua elezione avrebbe condotto al quarto governo diverso in 4 anni. Gli altri nomi sul tavolo erano quelli di Marta Cartabia, Elisabetta Belloni, Pierferdinando Casini e Giuliano Amato.

Dopo aver evitato le ipotesi Berlusconi o Draghi, il Movimento 5 stelle si era dato un obiettivo ambizioso e sentito: l’Italia ha avuto 12 presidenti della Repubblica e 30 capi di Governo, tutti uomini. Il 2022 poteva essere l’anno di rottura del tetto di cristallo della più alta istituzione italiana. Un messaggio potentissimo in grado di arrivare a centinaia di milioni di persone. La domanda spontanea è: perché nonostante gli annunci, non si è andati fino in fondo con questa scelta?

La risposta è difficile. Le dinamiche quirinalizie avvengono sostanzialmente con un telefono senza fili a ritmi martellanti e infernali. Le regole prevedono che il Presidente della Repubblica sia una figura al di sopra delle parti. E’ eletto però da una assemblea parlamentare che è composta da parti(-ti), quindi un aspirante presidente della Repubblica deve passare tramite due filtri.

Primo: un candidato non può essere indicato apertamente da nessun leader, altrimenti in caso di elezione è una sua vittoria e la prima preoccupazione degli altri leader è “non lasciare la vittoria a…”. La valutazione onesta e trasparente circa le qualità del futuro presidente viene in seconda battuta. Per questi motivi validissimi candidati vengono depennati dalla lista, in una parola bruciati.

Secondo: se un candidato/a riesce ad arrivare sul tavolo senza il marchio di nessun leader, il nome deve essere condiviso dalla larga maggioranza governativa. Il punto centrale e unico di questa elezione è che la maggioranza governativa è composta dal 90% del Parlamento. Quindi, partiti inesistenti nelle urne o con un consenso inferiore del 5% hanno avuto il diritto di veto su nomi eccellenti.

Dunque, la scelta del Mattarella bis è stata dettata principalmente dalla volontà di tenere unita la maggioranza di governo. L’enorme fiducia riconosciuta al presidente uscente, lungi dall’essere una vittoria per le istituzioni, maschera uno stallo che dura quasi da un decennio, ovvero dall’elezione del Napolitano bis. A questo si aggiunge la fragilità e la litigiosità interna e esterna dei partiti, che ormai è il modus vivendi della democrazia italiana. Uno stallo che è anche economico, visto che l’Italia non cresce in termini reali dal 2000.

In questo contesto, la rielezione del presidente della Repubblica, purtroppo, è un passo ulteriore nella direzione della crisi sistemica. Una crisi dalla quale si esce con più democrazia interna nei partiti, ma anche con un rispetto della leadership riconosciuta. Il mix letale tra stallo istituzionale e conflitto partitico è pronto ad esplodere in vista delle elezioni del 2023; se i partiti non intervengono prima rischiamo di trascinare questo stallo anche nel quinquennio 2023-28, con ricadute tremende per la credibilità delle istituzioni repubblicane.

In questa elezione del capo dello Stato la difesa della stabilità istituzionale è andata di pari passo con il tradimento delle aspettative dei cittadini. Una via percorsa con un eccessivo spirito di conservazione che non riflette la voglia di cambiamento, di creatività e di innovazione diffusa tra i cittadini e che riemergerà nella prossima campagna elettorale e nei due referendum (cannabis e eutanasia) che chiameranno i cittadini alle urne.

Per questi motivi, nonostante l’iniziativa dei leader di partito, le correnti trasversali e sotterranee dei partiti hanno trascinato l’elezione del capo dello Stato in un’alchimia democratica sempre più incomprensibile ai cittadini. Che ci guardano attoniti, rassicurati dalla guida stabile di Mattarella, ma che allo stesso tempo reclamano a gran voce di voler tornare a incidere nelle scelte di lungo periodo.

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