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La prova del nove per il nuovo e più libero Twitter pensato da Elon Musk potrebbe trovarsi in Medio Oriente. Là, dove i social network – specie Facebook e Twitter – hanno mostrato la loro potenzialità a inizio decennio scorso durante le Primavere arabe. Rivoluzioni che hanno interessato l’intera regione, ma che non hanno portato alla svolta democratica che si erano prefissate. Anzi, gli autoritarismi la fanno ancora da padroni e il controllo della società passa anche dai social media. Come afferma a Formiche.net Matteo Colombo, junior researcher per il Medio Oriente presso il think tank olandese Clingendael e associate research fellow all’Ispi, “se la strada che prenderà Musk è quella della libertà di parola senza limitazione, ci saranno conseguenze positive e negative”.

Più nel dettaglio, le criticità che il free speech si porterebbe dietro sono due e riguardano tanto l’estremismo quanto la semplice società civile. Coloro che amplificano la violenza su Twitter come i terroristi, infatti, con l’assenza di censura “possono raggiungere quanti più utenti possibili”, continua Colombo. Questo è un discorso che oltrepassa i confini del Medio Oriente e riguarda un po’ tutte le società. Ma sugli estremisti nella regione è in atto “un grande dibattito in letteratura. C’è chi sostiene che se non si ha censura, le idee radicali possono proliferare con maggiore facilità”. Ed è vero. Come lo è altrettanto il fatto che, mettendo delle rigide regole per controllare i contenuti che circolano sulla piattaforma, “si rifugeranno in altre piattaforme crittografate” andando così a chiudersi in una cerchia e “aumentando la radicalizzazione in certi contesti”.

La libertà di parola non riguarda però solo il rischio di una sregolata diffusione delle teorie più estreme, ma anche “chi uscirà allo scoperto”. A differenza di Facebook, nato con l’intento di mettere in connessione amici e parenti e, quindi, meno di nicchia, Twitter è un social network differente. L’obiettivo è lo stesso – raggiungere quanti più utenti possibili – ma è la funzione ad essere diversa. Sulla piattaforma di Mark Zuckerberg le persone preferiscono condividere la propria vita e i contenuti assumono una natura più intima e personale. Diverso l’uso che si fa di Twitter dove, il più delle volte, l’hashtag viene utilizzato per lanciare campagne o sensibilizzare su un certo tema. In questo modo, le persone si espongono uscendo allo scoperto e mettendosi, di fatto, in pericolo. “Quelle meno accorte possono essere più facilmente identificate, come accadde con i cambiamenti di massa del 2011”.

All’epoca Twitter era stato sì un impulso democratico, ma relativamente contenuto. Basti pensare che l’anno dopo la rivoluzione, nel 2012, in Egitto gli utenti registrati erano appena lo 0,26% della popolazione, in Tunisia lo 0,1% e in Siria lo 0,04%. Numeri che, messi a confronto con quelli dell’ Arab Social Media Report di cinque anni più tardi, mostrano un incremento della popolazione attiva su Twitter, seppur lontanissima dai livelli di Facebook. Lo conferma anche Colombo, quando sostiene che “se vuoi trovare l’arabo medio sui social, lo trovi su Facebook o Instagram”.

Non a torto. A maggio del 2017, infatti, nella regione gli utenti attivi mensilmente erano 11.1 milioni, più che raddoppiati rispetto ai 5.8 milioni di due anni prima. L’Egitto rappresentava il 18% della torta, l’Algeria e gli Emirati Arabi il 9% mentre l’Arabia Saudita il 29%, facendo registrare un drastico calo dal 40% del 2014. Se davvero Elon Musk vorrà permettere a tutti di dire quel che pensano, dunque, “la censura sarà più difficile e quindi i cambiamenti possono avvenire con più facilità”.

Sempre secondo il report, infatti, è interessante sottolineare come, tolto Facebook, Twitter era la piattaforma preferita per il 27,8% degli utenti per esprimere la loro opinione sull’operato del governo – in generale, il 58% di loro utilizzava i social per dare giudizi politici. Non a caso, “Twitter è la piattaforma degli attivisti, o di persone che vogliono diffondere il loro messaggio, promuovere la loro campagna o sensibilizzare su un determinato tema”. Ma, secondo l’analista, può rappresentare “un vantaggio per chi porta avanti questo tipo di battaglie, meno se si cerca una mobilitazione di massa”.

Anche perché la presenza di bot su Twitter in Medio Oriente è diffusissima e questo può rappresentare un’arma in più nelle mani di un governo autoritario. Potrebbe, ad esempio, promuovere un argomento di suo interesse così che l’opinione pubblica lo assorba oppure, con l’aiuto di account finti, dimostrare quanto la popolazione abbia fede nelle autorità. “C’è bisogno di questo tipo di censura – e Musk ha promesso di combatterli fino alla morte, se necessario, oltre di accettare solo “real humans”, ndr – altrimenti chi ha più soldi può diffondere con più facilità le sue idee. Un attivista non ha i mezzi per farlo, a differenza dei governi”.

Sulla questione dei bot Marc Owen Jones, assistant professor alla Hamad Bin Khalifa University e autore del libro “Digital authoritarianism in the Middle Est”, ha scritto sul suo profilo Twitter un thread molto interessante, dove spiega quanto i profili falsi mettano in soggezione gli utenti veri, costringendoli quasi a un’autocensura. Per evitare di incappare in queste situazioni, afferma Colombo, “nella regione sono molto diffusi i Vpn, con cui alcuni già si mascherano” per esprimere liberamente le proprie opinioni ma anche per informarsi con oggettività.

Dovrebbe andare proprio in questo senso la Dichiarazione per il futuro di Internet, lanciata ieri dagli Stati Uniti insieme ad altri sessanta Paesi, con il fine di arrivare a “un singolo Internet globale che sia davvero aperto e che promuova la competizione, la privacy, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutte le persone” e “il libero flusso dell’informazione” attraverso una “connettività inclusiva e sostenibile in modo che tutti possano beneficiare dell’economia digitale”.

Come affermato dalla Casa Bianca, nel “crescente autoritarismo digitale alcuni Stati agiscono per reprimere la libertà di espressione, censurano i siti di notizie indipendenti, interferiscono con le elezioni, promuovono la disinformazione e negano ai loro cittadini altri diritti umani”.

Un progetto ambizioso quanto autorevole, ma che necessita di un’attenzione particolare per evitare di condannare (giustamente) la propaganda dei regimi sorvolando su quella dei sistemi che faticano ad avviarsi verso una democrazia completa, ugualmente dannosa. Nel contesto medio orientale, però, un Internet di questo tipo potrebbe essere una spinta “per la circolazione delle informazioni con la garanzia governativa che questo accada può avere indirettamente effetti positivi perché sono persone che accedono alle reti anche di altri Paesi”, commenta Colombo. Purtuttavia, la dice lunga come tra i firmatari della regione figuri solamente Israele.

Il discorso, quindi, è molto più complesso di quello con cui Musk riduce la questione dell’intolleranza sui social. “L’estrema sinistra odia tutti, inclusa se stessa!” ha twittato oggi aggiungendo un commento per chiarire come “non sono nemmeno un fan dell’estrema destra. Proviamo con meno odio e più amore”. In realtà Musk nell’Alt-right statunitense ci si trova a suo agio, non tanto perché condivide le loro idee ma perché spesso si tratta di voci politicamente scorrette che si allineano con le sue idee libertarie.

Soprattutto, l’estremismo non si ferma alla sola politica ma si nasconde in forme differenti. Il Medio Oriente ne è una testimonianza ed è (anche) lì che Musk si giocherà la credibilità del suo Twitter democratico.

Musk, il Medio Oriente e il manifesto di Internet

La libertà di parola sbandierata dal futuro proprietario di Twitter dovrebbe portare, secondo lui, a una maggiore democrazia. Sarà davvero così in Medioriente dove i governi – Israele escluso – hanno evitato di firmare la Dichiarazione per l’Internet libero?

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