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Avremo modo di parlare ancora dell’intervista a papa Francesco realizzata da Fabio Fazio, su Rai Tre, perché, a mio personalissimo parere, il papa si è distinto per la sua umanità, sincera e profonda, dialogante e toccante. Il papa ha parlato di sé come uomo, cristiano, pastore, senza mitizzare se stesso e il suo ruolo, anzi usando anche un sano umorismo. “Non sono un campione di peso, che sopporto tanto – ha risposto a una domanda. Se confrontato con tante famiglie che fanno fatica a pagare le bollette, ad arrivare a fine mese… E non sono da solo, ho tante persone che mi aiutano”. Già in una delle prime interviste aveva affermato: “Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione. Dipingere il papa come una sorta di superman, una specie di star, mi pare offensivo. Il papa è un uomo che ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti. Una persona normale” (5.3.2014).

Quanto più un papa è popolare tanto più si insinua una trappola: la notorietà del leader potrebbe far passare in secondo piano quello che dice e che vuole realizzare. Un po’ scatta una dinamica da concerto: mi piace più il cantante della canzone e la mia attenzione è, di conseguenza, più verso il cantante che la canzone. Tutto ciò porta a quell’atteggiamento adolescenziale per cui delle canzoni si ricorda ben poco, ma del cantante, ovvero delle emozioni che mi ha suscitato, si hanno precisi e profondi ricordi. Il dato emotivo finisce così per sovrastare e assorbire quello cognitivo. Saggezza vuole che emozioni e cognizioni vadano sempre integrate e governate o, in termini cristiani, sottoposte a discernimento.

Papa Francesco sembra essere ben cosciente di questo rischio relativo all’accoglienza della sua persona. Le precisazioni del papa (di ieri sera come di altri interventi) sembrano cogliere alcuni limiti evidenti di alcuni dei suoi convinti sostenitori: mitizzazione della sua figura, smisurata fiducia nella sua riforma, eccessive aspettative dal suo pontificato, superficiali semplificazioni dei processi ecclesiali, perdita di oggettività e distacco nel valutare le sue parole e i suoi gesti, deresponsabilizzazione. I capi non vanno “divinizzati”, avevo detto Francesco parlando alla Curia romana. E questo atteggiamento di idealizzazione potrebbe nascondere una vera e propria sindrome: “è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare” (22.12.2014).

Con le dimissioni di Benedetto XVI, con tanti gesti e testi di Francesco, la Chiesa cattolica, con fatica, sta entrando nella modernità, senza rinnegare se stessa ma con la consapevolezza che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono – come insegna il Vaticano II – sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. E ieri sera, infatti, il papa non ha solo presentato se stesso con molta umanità, ma ha anche ricordato alla Chiesa, a tutti che “di fronte alle tragedie, non basta vedere, bisogna sentire e toccare”.

Per quanto semplice e toccante, quella di ieri sera non è una lezione facile da assimilare (lo stesso intervistatore sembra essere caduto in una trappola ossequiosa e compiacente). Papa Francesco ha la stupenda capacità di parlare con semplicità al cuore di tutti, ma al tempo stesso di aprire orizzonti di riflessione molto impegnativi. Intendo i riferimenti del pontefice a “pelagianesimo e gnosticismo, i testi di Paolo VI Ecclesiam suam ed Evangelii nuntiandi (da lui “plagiate” – cosi come umoristicamente ha detto – nella Evangelii gaudium), la lezione di Dostoevskij, il magistero sulla guerra, la sofferenza dei bambini e l’onnipotenza di Dio “limitata dall’amore”, i lager per migranti. Con buona pace degli oppositori di Bergoglio, spesso cosi stucchevoli e sprovveduti (specie quando l’accusano di scarsezza dottrinale), il papa non manca mai di offrire indicazioni solide alla sua Chiesa, specie in questo periodo di sinodo. È proprio qui, a mio parere, la sfida di papa Francesco, nel parlare, al mondo come alla Chiesa, con semplicità ma ancorato su contenuti che vanno al cuore dell’umanità e della cristianità. È la “saggezza dello scriba”. Ne parla l’evangelista Matteo (13, 51-52): il Signore Gesù disse: “Avete compreso tutte queste cose? Gli risposero i discepoli: Sì. Ed egli disse loro: Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.

La lezione di Francesco, uomo e pastore che ci guida nella modernità

Quanto più un papa è popolare tanto più si insinua una trappola: la notorietà del leader potrebbe far passare in secondo piano quello che dice e che vuole realizzare. Papa Francesco sembra essere ben cosciente di questo rischio relativo all’accoglienza della sua persona. Il commento di Rocco D’Ambrosio

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