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Prende sempre più corpo e consenso l’idea di una “cooperazione rafforzata” di un gruppo di volenterosi membri dell’Unione, basata sull’art. 42 del Tfue, per creare un nucleo costituente di effettive capacità militari. Ne ha parlato con cognizione di causa il generale Vincenzo Camporini sul Messaggero del 22 febbraio, mettendo in relazione l’iniziativa con il desiderio degli Usa di orientare l’attenzione della Nato all’Indo-Pacifico e dare all’Europa maggiori responsabilità nel proprio giardino di casa.  

Per affrontare al meglio la questione non è inutile ricordare brevemente sia quello che accadde settant’anni fa alla Comunità Europea di Difesa (Ced), abortita per volontà del parlamento francese nel 1954, sia quello che ancora sopravvive dell’unico caso di reale cooperazione rafforzata, ancora esistente in campo marittimo-navale con la Forza marittima europea (Euromarfor) dopo la cessazione dell’esperienza terrestre della Forza europea operativa rapida (Eurofor).  

Storia molto complessa quella della Ced, il cui  inizio si deve alle menti illuminate dei Padri fondatori dell’Europa francesi. “La Ced non fu soltanto un’idea, ma un organismo nato da un trattato firmato a Parigi dai sei Paesi membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) il 27 maggio 1952. Per l’Italia a firmare c’era Alcide De Gasperi… Accanto a De Gasperi, in questo precoce sforzo federalista c’erano i francesi Jean Monnet e Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer e il segretario di Stato Usa Dean Acheson” (D. Messina, Corsera, 19.2.17).  

Il presidente De Gasperi intuì subito che un ostacolo da superare era il  valore federalista della Ced che presupponeva “Lo sviluppo di una comunità militare in una comunità politica”. E fu proprio questo lo scoglio su cui essa s’infranse quando il 19 agosto 1954 con il voto contrario dell’Assemblea nazionale francese, condiviso da un largo schieramento che comprendeva le forze di sinistra e i deputati gaullisti. 

Al fallimento della Ced si rimediò estendendo all’Italia e alla Germania il Trattato di Bruxelles del 1948, sottoscritto da Gran Bretagna, Francia e Benelux, che prevedeva tra le forme di collaborazione reciproca, quella della difesa militare collettiva in caso di attacco ad uno dei membri.  L’impegno militare dell’Unione europea occidentale (Ueo) si rafforzò negli anni Novanta con la partecipazione nel 1992 all’embargo navale Onu contro la ex Iugoslavia cui seguì, lo stesso anno, la dichiarazione di Petersberg, la definizione di un pacchetto di missioni non belliche, umanitarie, di soccorso, di peacekeeping. 

Dalla costola Ueo nacque, con il Consiglio europeo di Helsinki  1999, il primo embrione di Europa della Difesa. Il generico impegno di mantenimento della pace facente sino ad allora parte della politica estera Ue si trasformò in una vera e propria competenza a svolgere un ruolo di stabilizzazione regionale, come la lotta al terrorismo. La definizione del quadro giuridico di riferimento di tale politica si è avuto con il Trattato di Lisbona del 2007, in cui è stato anche incorporato il principio della difesa collettiva. Il che ha portato alla cessazione, dal 2011,  dell’Ueo, le cui attività militari furono così trasferite nell’attuale Politica di difesa e sicurezza comune (Psdc) dell’Ue, fermo restando la cooperazione con la Nato. 

La capacità di intervento esterno dell’Unione sono attestate dalle varie  missioni di Psdc, sia civili sia militari,  come quella terrestre Althea in Bosnia o navali in Mediterraneo (Irini), mar Rosso (Aspides), Corno d’Africa (Atalanta). 

Potremmo giudicare questo un modello positivo dell’impiego collettivo degli assetti militari di più Stati. Se però pensiamo alla crisi Ucraina e all’impossibilità per l’Unione di partecipare attivamente, sia pur in forma di non belligeranza, alle ostilità contro la Russia, ci rendiamo conto che  il punto sta proprio qui. Come ha detto il professor Michele Nones, “… nel Dna dell’Ue è stato inserito un anticorpo nei confronti di ogni attività militare: in parte non prevedendo iniziative in questo campo…, in parte con specifici divieti ad occuparsi di temi militari. Questa situazione fa sì che non sia previsto esplicitamente un Consiglio europeo dei soli ministri della Difesa, non esista una Commissione Difesa nel Parlamento europeo… Per fortuna l’allargamento della ‘difesa’ alla più ampia ‘sicurezza e difesa’…la necessità di una comune capacità di proiezione internazionale hanno consentito di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta… “. 

Sappiamo che la nuova consiliatura Ue sta cercando di assumere  iniziative — e una è la creazione della carica di Commissario per la Difesa e lo Spazio — per aumentare le capacità militari europee. Ma alla fine, l’indisponibilità degli Stati a cedere altri settori di sovranità potrà difficilmente portare ad un vero esercito europeo  —- come sarebbe stato quello della Ced — in mancanza della necessaria integrazione politica.  

Ecco dunque che appaiono pragmatiche le proposte di creare forme di cooperazione rafforzata di assetti militari di Paesi Ue a ciò disposti, da porre sotto un comando integrato. 

Un esempio c’è già in campo marittimo-navale ed è quello di Euromarfor creata nel 1995 ad iniziativa di Francia, Italia, Portogallo e Spagna nell’ambito della Ueo, con una agile linea di comando politico-militare. La Forza è non-standing e può essere attivata in cinque giorni dal relativo ordine. Il suo comando strategico è affidato a rotazione biennale alle Marine partecipanti che pongono a proprio carico i loro costi. L’attuale comandante è il nostro ammiraglio Aurelio De Carolis, che abbina l’incarico a quello di Comandante in capo della squadra navale (Cincnav). La tipologia di missioni reali di Euromarfor, modellata sui Petersberg Tasks e incentrata sulla sicurezza marittima e sulla protezione delle Sea lines of communications (Slocs), si è svolta nel Golfo di Guinea, Mediterraneo, Corno d’Africa e mare Arabico. Di fatto, Euromarfor opera ab externo in supporto della Psdc e può quindi ascriversi alla cooperazione rafforzata prevista dai trattati Ue.  

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