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Quando l’amministrazione Trump impose nuove e stringenti sanzioni contro la Siria si registrarono moltissimi appelli contro di esse. Nomi importanti, soprattutto del mondo cattolico ma non solo, si spesero per far presente che il regime sanzionatorio non è mai la soluzione: i siriani muoiono di fame e non vengono neanche aiutati umanitariamente a fronteggiare la loro difficilissima vita.

In realtà il sistema sanzionatorio previsto dall’amministrazione Trump non riguardava l’umanitario ma soprattutto il sistema finanziario e le grandi società di costruzione legate al regime e mirava a impedire che Assad potesse avviare i lavori di ricostruzione della Siria senza aver risolto i nodi giudiziari pendenti con la Comunità Internazionale.

Una conferma di questo la potremmo trovare nell’estenuante braccio di ferro sugli aiuti umanitari transfrontalieri alle popolazioni del nord della Siria, un mare di profughi deportati ai confini con la Turchia dal regime di Damasco dopo la “liberazione” di importanti aree del Paese. La popolazione civile di quelle aree spesso e volentieri è stata deportata nell’estremo nord, la provincia di Idlib, dove ora il regime combatte militarmente per tornare in controllo anche di quella zona.

Al palazzo di vetro gli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna volevano i corridoi umanitari terrestri dalla Turchia per consegnare a milioni di profughi ammassati a Idlib acqua, tende, medicine e altri generi di prima necessità, incappando però nel veto di Russia e Cina. Costoro ritenevano che gli aiuti dovessero passare da Damasco. La legalità internazionale è tra Stati e quindi prevedrebbe questo, ma è difficile immaginare che il regime che assedia una popolazione scacciata dai suoi territori e ora combattuta con distruzione anche di scuole e ospedali che si protraggono da anni possa poi consegnare gli aiuti umanitari a chi bombarda o assedia, arrivando anche a distruggere intere coltivazioni per obbligare alla resa.

La guerra a Idlib prosegue e la popolazione civile lì forzatamente e illegalmente trasferita non ha le armi in pugno – appannaggio di gruppi jihadisti contro i quali i profughi e la popolazione locale si sono spesso mobilitati – ma è solo vittima del conflitto. Il negoziato all’Onu è stato durissimo e lungo e il compromesso è stato trovato per pochi mesi, con Mosca e Pechino che hanno preteso la riduzione dei valichi terrestri attraverso cui l’Onu poteva far giungere a quel mare di profughi assistenza umanitaria. La Turchia, che non vuole altri siriani a casa sua, ha accettato di buon grado di rendere disponibile il suo territorio.

Questa corsa alla critica delle sanzioni è dunque dovuta a molti fattori: la memoria delle nefaste sanzioni contro l’Iraq, in realtà contro gli iracheni, che durarono tantissimi anni provocando moltissimi morti, ma che erano molto diverse: non colpivano il sistema finanziario e le società di costruzione dei gerarchi, ma impedivano l’accesso di generi di primissima necessità. Inoltre le condizioni di vita dello stremato popolo siriano hanno spinto molti a chiedere non sanzioni, ma aiuti. Più che comprensibilmente.

Il fatto è che quegli aiuti umanitari ci sono e ammontano a 2,5 miliardi di dollari annui dal 2014. La Comunità Internazionale ha tentato di fare in modo che questi aiuti non dessero sollievo al regime, responsabile di crimini contro l’umanità, ma alla popolazione. Sapeva bene che fino al 2014 Damasco aveva trasferito gli aiuti umanitari, dandoli soltanto alle aree ritenute “fedeli” e negandoli a quelle ritenute “non fedeli”. La storia degli assedi a intere città bloccando camion di aiuti internazionali destinati a quelle popolazioni è nota.

Così si è deciso di procedere per gli aiuti umanitari a trasferimenti di denaro a banche private che operano in Siria o a banche che operano con un corrispondente in Siria. I trasferimenti avvengono in dollari e vanno poi cambiati in valuta locale. Qui interviene però la Banca Centrale di Siria, che fissa il tasso di cambio, enormemente più basso di quello reale. Lo ha documentato con precisione e accuratezza uno studio pubblicato in questi giorni dal Center for Strategic and International Studies.

“Prima della guerra, il tasso di cambio era di 50 SYP (Syrian Pound) per un dollaro. Nel marzo del 2021 il cambio sul libero mercato è precipitato a 4.700 SYP per un dollaro. Ma per la Banca Centrale il tasso di cambio applicabile alle agenzie umanitarie dell’Onu è di 1.500 SYP per un dollaro. Questo significa che circa due terzi dei fondi stanziati in aiuti da spendere nel Paese sono andati persi all’interno dell’operazione di cambio prima ancora che l’operazione cominciasse sul terreno. Così le Nazioni Unite hanno negoziato un tasso di cambio migliore con Damasco, ottenendo un tasso di cambio di 2500 SYP per un dollaro”.

Ma rimane ancora un gap enorme, circa il 32%. Lo studio del Csis analizza i dati ufficiali delle agenzie umanitarie dell’Onu relativi al 2020. Le agenzie dell’Onu hanno convertito in SYP 113 milioni di dollari per offrire vari servizi e beni ai siriani. Al tasso di cambio applicato al tempo la cifra ottenuta in cambio in valuta siriana aveva un potere d’acquisto reale inferiore di 60 milioni rispetto a quanto trasferito realmente. Analizzando i dati del 2019 e del 2020 si arriva a una perdita di 100 milioni. Cifra modesta, si potrebbe dire, ma solo perché questi dati si riferiscono ai soli trasferimenti delle agenzie umanitarie dell’Onu e non comprende quanto fatto attraverso le diverse Organizzazioni non governative operanti. Il ginepraio degli aiuti ai siriani e non al regime è più complesso di quanto si pensi.

Assad devia nelle sue casse gli aiuti per i siriani

Uno studio del Center for Strategic and International Studies ha documentato come i trasferimenti di denaro per aiuti umanitari versati a banche private che operano in Siria avvengano in dollari per poi essere cambiati in valuta locale. Nel Paese però interviene la Banca Centrale, che fissa il tasso di cambio, enormemente più basso di quello reale. Ecco che cosa si è scoperto

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