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L’inviato speciale dell’Onu, Jan Kubis, non è riuscito a nascondere le proprie difficoltà quando il 25 agosto ha provato a fare un punto sulla stabilizzazione libica. Il curatore diplomatico delle Nazioni Unite, nominato come responsabile di una processo che il Palazzo di Vetro si è intestato, non ha potuto non evidenziare nella sua ricognizione che le elezioni previste per il 24 dicembre sono a rischio.

Anche di questo si dovrebbe parlare in questi giorni, quando il premier libico Abdelhamid Dabaiba sarà in Italia per incontri istituzionali e per partecipare al Forum Ambrosetti di Cernobbio.

A quattro mesi dal voto, manca praticamente tutto: non c’è una legge elettorale, non ci sono i parametri per la candidatura, non si è ancora nemmeno deciso se si eleggerà il presidente, il parlamento, entrambi o nemmeno uno dei due. Lo scetticismo é molto alto tra analisti internazionali e politici libici, nonostante sia l’Onu che Ue e Stati Uniti abbiano più e più volte sottolineato la necessità di portare i libici alle urne.

Una posizione rimarcata a più riprese anche dall’Italia. L’attuale Governo di unità nazionale e la struttura del Consiglio presidenziale di Tripoli sono usciti infatti da un processo di nomina avvenuto all’interno del Foro di dialogo politico. Un’assise pensata dall’Onu per capitalizzare il cessate il fuoco dello scorso ottobre, sfruttare una distensione tra le varie anime libiche, nominare un esecutivo ad interim con il compito di traghettare il Paese alle elezioni.

Non è un caso che prima del nome di Dabaiba circolasse già il 24 dicembre (70esimo anniversario dell’Indipendenza) come data fissata per il voto. La necessità — condivisa da Roma, Washington e a Bruxelles — è spingere fino in fondo la stabilizzazione attraverso un governo popolare democraticamente eletto e superando lo schema di governanti imposti per forza o diplomazia che ormai va avanti da dieci anni (e prima col rais Gheddafi).

Tra le difficoltà del trovare una quadra tecnica per votare non si può sottovalutare che in certi casi i dettagli tecnici nascondono volontà politiche. Non manca chi sostiene che Dabaiba e i suoi vogliano continuare l’attività ad interim sine die. Ormai abituati al potere (che “logora chi non ce l’ha)  intendono restarci il più a lungo possibile? Difficile rispondere con certezza, di sicuro accettando l’incarico del Foro non potranno ricandidarsi, e intanto hanno messo in atto dinamiche ampie per occupare gli spazi tra le grandi istituzioni della Libia – come dimostra la vicenda del ritiro dell’incarico al presidente della petrolifera Noc Mustapha Sanalla.

La situazione è complessa, perché sé queste dinamiche non stupiscono in un Paese in pace e stabilizzato (prendere da esempio l’Italia), tutt’altro affare riguarda una nazione divisa, piena di armi e gruppi armati, oggetto delle attenzioni bellicose di altri Stati che durante l’ultimo conflitto (ma anche in precedenza) hanno scelto il teatro libico per dare sfogo violento, militare alle proprie ambizioni e divisioni. Secondo il piano Onu, dal voto in effetti dovrebbe passare anche la composizione di un quadro istituzionale ordinato, l’uscita dei proxy militari stranieri, lo scioglimento delle milizie.

“Il popolo libico aspira a porre fine allo stato di frammentazione, divisione, conflitti e guerre alla data che è stata fissata attraverso la road map approvata dal Forum di dialogo politico libico, e la maggior parte delle figure nazionali di spicco del mondo politico, militare e la scena economica si sono impegnati a rispettarla”, ha scritto l’ex vicepremier del Governo di accordo nazionale e vicepresidente Ahmed Maiteeg, in una lettera inviata al Consiglio presidenziale e al parlamento.

”Pertanto — rimarca — la data fissata per lo svolgimento delle elezioni presidenziali e legislative del 24 dicembre 2021 è diventata un diritto nazionale e un impegno vincolante davanti al popolo che non può essere annullato”. Maiteeg è uno dei politici più influenti del Paese, e porta in dote l’aver costruito il cessate il fuoco attraverso negoziati diretti con Khalifa Haftar.

Haftar è il capo milizia dell’Est libico che tra aprile 2019 e ottobre 2020 ha assaltato il governo di Tripoli tentando di rovesciarlo prima di essere sconfitto dall’intervento difensivo turco. Ora potrebbe candidarsi alla presidenza, tra le tante critiche dalla Tripolitania. È stato costretto all’opzione politica, ma in tasca potrebbe sempre avere un piano-B armato. È questo il rischio? Ossia, più aumentano i tempi dell’interim di Dabaiba, più si allontana un voto popolare legittimante, e più c’è il pericolo di colpi di coda e del ritorno alle armi? Quanto potrà reggere l’incrocio d’astri pacifico sopra alla Libia?

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