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Venerdì 3 settembre, una settimana prima dell’anniversario dei 20 anni dall’attacco alle Torri Gemelle, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ordinato al Dipartimento di Giustizia e ad altre agenzie governative di togliere entro sei mesi il segreto sui documenti correlati alle indagini dell’Fbi sull’attentato. Biden ha così acconsentito alla richiesta delle famiglie delle vittime, che ritengono che gli atti da declassificare possano mostrare una connessione tra i 19 attentatori e le autorità saudite (oggetto di una causa legale da parte dei parenti dei quasi 3.000 morti e 6.000 feriti a New York, al Pentagono e sui quattro voli di linea dirottati).

“Quando ho corso come presidente ho preso l’impegno di assicurare trasparenza sulla declassificazione dei documenti riguardanti gli attentati terroristi dell’11 settembre contro l’America” ha dichiarato Biden. “E adesso onoro quella promessa”.

Il governo dell’Arabia Saudita ha sempre negato ogni coinvolgimento con i terroristi, 15 dei quali erano di nazionalità saudita.

Biden prosegue sulla via intrapresa nel 2016 dall’allora presidente Barack Obama che desecretò nel luglio 2016 il capitolo finale di 28 pagine del rapporto dei Comitati parlamentari Usa per l’intelligence sulle indagini condotte dai servizi segreti americani prima e dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 (2003) che sono rimaste segrete per 13 anni. Anche allora, come avviene oggi con Biden, dopo le ripetute richieste dei parenti delle vittime, di molte associazioni e di diversi politici americani. Quelle pagine contenevano la parte 4 del rapporto parlamentare.

Il capitolo riguarda quanto è stato scoperto su “alcune materie sensibili in materia di sicurezza”. Tanto sensibili appunto da rimanere celate alla pubblica opinione per così lungo tempo. Si tratta in sostanza della rete di supporto e dei finanziatori stranieri degli attentatori suicidi delle Torri Gemelle.

Nonostante ciò il documento ha avuto pochissima eco sui mass media, anche perché purtroppo, all’epoca, occupati a dar conto dei ripetuti attacchi in Europa di adepti dell’Isis in quello che si può dire essere stato un vero e proprio luglio di sangue (Dacca, Nizza, Monaco, Rouen).

Eppure c’è un lungo filo rosso che lega gli attentati dell’11 settembre di 20 anni fa negli Stati Uniti e la guerra civile in Siria che dal 2011 ha causato quasi mezzo milione di morti,4 milioni di profughi, e la diaspora del terrore in tutto il mondo, ma principalmente in Europa dei gruppi jihadisti, a partire dall’Isis.

E se è vero che come ha affermato l’allora direttore della Cia John Brennan in un’intervista alla tv di Stato saudita Al Arabiya “dopo le investigazioni di questi anni non c’è prova per affermare che il governo saudita come istituzione o alti responsabili sauditi individualmente abbiano sostenuto gli attacchi dell’11 settembre”, Brennan ha comunque sostenuto l’opportunità che il rapporto venisse pubblicato, anche per far vedere quello che è emerso ai livelli più bassi.

Una moltitudine di indizi sui contatti e le relazioni tra i 19 dirottatori suicidi, non con il governo, ma con personale saudita, e le prove dei finanziamenti ai suicidi e alle loro famiglie. La lettura del documento è di per sé impressionante.

Per esempio vengono descritti in dettaglio i rapporti tra un agente dei servizi segreti sauditi, Omar al Bayoumi, rientrato nel proprio Paese un mese prima degli attentati, con due dirottatori; viene affermato che i finanziamenti inviati da una società saudita che lavorava per il ministero della Difesa hanno subito un’impennata a partire dall’aprile 2000, due mesi dopo i due attentatori delle Torri Gemelle arrivarono a San Diego (California) e i finanziamenti continuarono fino all’agosto 2001. La società aveva rapporti con Osama Bin Laden, Bayoumi aveva rapporti anche con la Holy Land Foundation, sospettata di raccogliere fondi per Hamas. Un altro personaggio in contatto con gli attentatori e con Bayoumi era Osama Bassnan, descritto come ufficiale intelligence dai musulmani di San Diego e lui e sua moglie hanno ricevuto aiuto finanziario dall’allora ambasciatore saudita negli Stat Uniti e da sua moglie. Si parla poi di un diplomatico saudita che all’epoca lavorava al consolato di Los Angeles, Al Thurnairy, e uno degli imam della Moschea Fahad di Culver City in California. Saleh al Hussayen, un impiegato del ministero dell’Interno saudita, nel settembre 2001 ha soggiornato nello stesso hotel in Virginia in cui prese alloggio uno degli attentatori.

Il Comitato parlamentare esprime poi le sue preoccupazioni per un memorandum sui finanziamenti e le relazioni degli attentatori, trovato durante le sue indagini tra i file dell’ufficio Fbi di San Diego. È su questo file che le famiglie delle vittime hanno presentato in questi giorni un’esposto al ministro della Giustizia di Biden, l’Attorney general. E questi sono solo alcuni esempi di quanto vi si può leggere.

La cosa più interessante è però l’attualità di quanto apprendiamo dal rapporto (online con omissis sui nomi delle fonti coinvolte).

È interessante notare che la desecretazione è avvenuta dopo il viaggio, dell’aprile 2016, in cui Obama ha chiesto al governo in Arabia Saudita un maggiore impegno contro l’Isis, e la visita è stata organizzata in prossimità del quinto anniversario dell’attacco di Abbottabad, in cui è stato ucciso il leader di Al Qaeda. Sembra insomma che allora gli Stati Uniti abbiano accuratamente “gestito” il dossier saudita, cercando di usare il passato in vista del prossimo futuro.

E qualcosa di simile potrebbe avvenire nei prossimi mesi con la desecretazione ordinata da Biden, che influenzerà non poco i rapporti americani nell’area dopo il ritiro americano e la presa del potere in Afganistan dei talebani e il nuovo ruolo che sta svolgendo il Qatar nell’area.

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