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Nel continuo aggiornarsi della lingua comune con neologismi mutuati con una certa approssimazione da contesti specialistici, soft power è uno dei termini più utilizzati nelle cronache internazionali.

Come tutti i sillogismi, ha un potere evocativo immediato e pure il vantaggio di abbinare due parole di facile comprensione anche a chi poco conosce la lingua inglese.

Il problema è che la popolarità dell’espressione l’ha portata ad essere richiamata impropriamente anche in contesti non suoi, snaturandone il senso e inflazionandone l’uso.

Nel suo significato concettuale originale, il soft power è stato definito come l’influenza che gli Stati ottengono dal potere di attrazione in modo che altri attori si rimettano a loro perché li credono buoni o superiori, rendendoli così più favorevolmente disposti verso di loro.  Nel suo uso più comune, il termine è stato ampiamente impiegato per denotare politiche estere espansive attraverso mezzi non convenzionali, purché non prevedano l’uso della forza militare.

Il punto è che molte iniziative di uno Stato, pur non essendo belliche, possono contraddire entrambe queste accezioni. È il caso ad esempio delle politiche di aiuto che si svolgono in settori hard come Energia-Difesa-Finanza oppure dove i Donatori di fatto impongono il loro intervento ai Beneficiari.

In realtà il vero soft power è più riferito ad un’azione diplomatico culturale di un Paese che trasforma in prestigio estero i risultati raggiunti da propri cittadini, per esempio, in eventi artistici e culturali universalmente riconosciuti.

Il problema è che in Italia non sempre il livello istituzionale sa riconoscerli in tempo reale e coglierne a pieno il potenziale.

Ad esempio, ossessionati dalle discussioni sull’immagine sarcastica e decadente che il film dava a Roma, la vittoria dell’Oscar di Paolo Sorrentino per “La Grande Bellezza” è stata poco sfruttata dal Sistema Italia per ottenere un effetto da soft power. E ha portato più prestigio al Regista che al Paese.

Più di recente, la stessa sorte sembra toccare ai Maneskin, sul cui successo internazionale pochi in patria si stanno interrogando con l’obiettivo di capire se e quanto potrebbe essere di beneficio ad una promozione complessiva oltreconfine della produzione culturale nostrana.

Il giovane gruppo romano non solo è riuscito nell’impresa, rara, di mettere in ombra la trasmissione che li ha lanciati ma anche in quella, unica, di imporsi oltre gli stretti limiti nazionali cui in genere relegano le edizioni nazional-provinciali di format universali (come X-Factor) replicati ovunque in giro per il mondo, dalla Germania alle Filippine.

Rispetto all’accusa mossa ai talent da esperti del settore come Red Ronnie di avere volutamente eliminato le Rock-star imprevedibili e ribelli di una volta inflazionando il mercato di artisti-meteora malleabili nelle mani dei produttori, i Maneskin sono riusciti in poco tempo ad imporsi con il carisma della band di una volta e a uscire dal francobollo del fenomeno di passaggio nel cortile di casa.

Non a caso dopo la vittoria all’Eurovision hanno cambiato il proprio agente – affronto impensabile per i cantanti da batteria sfornati dai reality, gestiti come dei riders della canzone: un tanto a prestazione, finché dura.

Inoltre, i Maneskin hanno mostrato di avere tempi, sound e look perfetto per gli USA, ovvero quello che è da sempre il mercato discografico più sofisticato al mondo.  L’esibizione al Jimmy Fallon show e il concerto a Las Vegas (con Mick Jagger e i Rolling Stones…) sono stati un percorso netto che ne ha celebrato un successo immediato in uno show-biz che rivela subito, senza dubbio alcuno, se si è vinto o perso.

Soprattutto, seguendo quella che è una tradizione americana di non avere problemi a riconoscere ed esaltare i propri modelli culturali quando nascono fuori dagli USA, parte dell’immaginario che ha consacrato il rock della band romana oltre oceano sta proprio nel fatto che è formata da 4 ragazzi italiani, “fresh & hot” come ha prontamente commentato una eccitatissima Drew Barrymore.

Nonostante questa affermazione senza-se-e-senza-ma,  la reazione nostrana a questo fenomeno unico resta ancora scettica e debole e si perde nei rivoli di polemiche surreali, come quella de i Cugini di Campagna (!?) che accusano i Maneskin di avere copiato il loro look (!!??).

Nel frattempo si ripete quanto visto dopo l’affermazione all’Eurovision a Rotterdam, quando sia la vittoria che il ritorno in patria di Damiano & co. registrarono minore entusiasmo di quello in occasione del Festival di Sanremo.

E’ come se non si volesse capitalizzare ed incorniciare in un contesto istituzionale culturale italiano il potenziale di soft power che accompagna i Maneskin e la loro musica e che potrebbe portare a migliorare ulteriormente la percezione dell’Italia all’estero, soprattutto tra quei Millenials inevitabilmente meno interessati ai tradizionali cantanti italiani popolari all’estero come Mina, Celentano o Paolo Conte.

Il fatto è che, afflitti come siamo da invidie provinciali ed interessi corporativi anche nel mondo dello spettacolo, si dimentica che i veri Rock-star consacrati universalmente non sono vuoti a perdere come i cantanti dei talent. Se non vengono valorizzati in patria, il rischio è che si spostino altrove dove sono apprezzati e desiderati.

Togliendo il disturbo, magari avvantaggiano il mercato discografico nostrano che si libera di una presenza ingombrante.

Ma finiscono con impoverire l’esportazione di politiche culturali di un Paese che per promuoversi ha bisogno anche del soft power del rock.

 

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