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Stando ai sondaggi, il centrodestra non dovrebbe avere difficoltà a conquistare la maggioranza dei seggi in Parlamento e quindi a governare nella prossima legislatura. Ne sarà in grado? Sarà capace non solo di prendere in mano l’eredità di Mario Draghi, che a quel punto potrebbe essere sul Colle più alto ma anche no, ma anche di conservare quella coesione interna e quella unità di intenti che le vicende di questo ultimo periodo sembra stiano mettendo in discussione?

Non nascondiamocelo: la competizione interna per la leadership della coalizione, il fatto di essere in parte al governo e in parte all’opposizione, l’impossibilità di articolare un discorso comune su alcuni argomenti sensibili (ad esempio sulla gestione della pandemia e il green pass), sono tutti elementi potenzialmente destabilizzanti che potrebbero lasciare un segno.

In verità, un elemento gioca a favore del centrodestra: il tempo che ci separa dalle prossime elezioni politiche che, si voti fra un anno o due, comunque non è poco per mettere su un programma comune. Presupposto è ovviamente la necessità di fare fronte comune per una soluzione favorevole del dilemma Quirinale, cioè l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Normalmente, il programma di una coalizione dovrebbe essere costruito dal basso: sentendo i territori, facendo proprie le best practices delle tante amministrazioni locali in cui il centrodestra già governa unito, trovando quei punti e quelle idee che uniscono un “popolo” che si sente altro e diverso rispetto a quello di sinistra.

Per una volta però, forse, si potrebbe contravvenire a questa “aurea” ma empirica regola e partire invece dall’alto, cioè elaborando una comune visione sulle cose europee. Da essa si potrebbe poi, da una parte, far ridiscendere come logica deduzione le politiche nazionali concrete e, dall’altra, risolvere subito quel problema di collocazione e rapporti europei che potrebbe rappresentare un grosso macigno sulla via dell’effettiva incisività del nuovo governo.

Che oggi ci siano le condizioni per fare questo passo e per far superare definitivamente, all’interno e all’esterno, il pregiudizio che vuole la nostra destra antieuropeista, a me sembra evidente.

Come costruire allora un programma europeo comune di tre forze che aspirano al governo nazionale ma che, in verità, anche a livello europeo si collocano in gruppi politici diversi? La traccia per tentare questa impresa è stata, a mio avviso, lasciata nell’ultima settimana da alcune dichiarazioni dei leader dei tre partiti, non sempre adeguatamente messe in risalto dagli organi di informazione.

Ha cominciato Giorgia Meloni, mercoledì scorso, intervenendo in Slovenia al Bled Strategic Forum 2021. La leader di Fratelli d’Italia ha detto: “Noi crediamo che l’Ue debba evolvere verso un modello confederale, in un’unione differente che concentri le sue iniziative solo su alcune materie importanti che possono offrire un valore aggiunto”. Il suo approccio è stato definito da Meloni: “Pragmatico, euro-realistico: l’Ue che fa meno ma meglio”. Ovvero, potremmo dire, fa meno cose ma quelle cose che fa le fa con più intensità e forza. Anche se non risulta che Meloni abbia esplicitato quali siano gli obiettivi su cui deve concentrarsi l’Unione Europea, non è difficile immaginare che siano proprio quelli a cui finora ha dato minore attenzione e che oggi la rendono geopoliticamente debole: una politica estera e di difesa comuni, in prima istanza.

Ed è qui che si è inserito venerdì sera Matteo Salvini, il quale, in un incontro con diplomatici di vari Paesi, ha lanciato un “accorato appello” perché l’Unione si dia al più presto una voce sola e sappia prendere l’iniziativa politica, proponendo al governo il riconoscimento del nuovo governo afgano solo dopo che esso sia passato per la prova di elezioni libere e democratiche.

Il giorno successivo Salvini si è perciò detto completamente d’accordo con il Presidente della Repubblica che, nei suoi saluti al Forum di Cernobbio, ha giudicato troppo timida e assente l’Europa su esteri e sicurezza. L’ultimo ad intervenire è stato infine ieri, sulle colonne del Giornale, Silvio Berlusconi, il quale, nel delineare in un lungo articolo le coordinate ideali (liberali e cristiane) dell’europeismo di Forza Italia, che in verità da questo punto di vista (anche per la presenza nel gruppo popolare) ha più credenziali dei due alleati, ha scritto che il suo partito ha come obiettivo concreto gli Stati Uniti d’Europa.

Certo, si tratterebbe di un modello federale e non confederale come quello immaginato dalla Meloni, “con una unica e forte guida politica negli scenari mondiali, espressione dl consenso dei popoli d’Europa”. Ma si tratterebbe anche di “un modello di Europa basato su un profondo rispetto per le identità dei singoli Stati… non un super-Stato burocratico e centralista, ma un grade spazio di libertà, basato sul principio di sussidiarietà, come indicato del resto nella Carta dei valori del Ppe”.

No all’Europa super-Stato, sì alle specificità nazionali, sì al principio di sussidiarietà, sì però anche a una voce unica e forte all’esterno e nella difesa dei propri valori e del proprio territorio, un’identità fondata sulla libertà e la democrazia: mi sembra che ce ne sia abbastanza per costruire su queste basi quella cornice comune, nazionale ed europeista insieme, liberale e non dirigista, che possa fare da collante e garanzia di buon governo se e quando sarà.

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