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La scorsa settimana Enrico Borghi, capogruppo di Italia Viva al Senato ed esponente della formazione renziana al Copasir, è stato, in qualità di membro della commissione Esteri e Difesa di Palazzo Madama, nel Corno d’Africa.

Com’è vista la presenza dell’Italia nel Corno d’Africa, anche alla luce delle complessità dei lasciti coloniali?

Complessivamente direi bene. Il colonialismo è stata una pagina tragica della Storia, che ha prodotto drammi e sofferenze, ma ha almeno lasciato in eredità un legame tra i popoli che oggi sanno come siano la cooperazione e la politica gli strumenti dello sviluppo reciproco. All’Italia si riconosce il fatto di essersi totalmente emancipata dagli schemi coloniali, e di sapere svolgere un ruolo di interlocuzione riconosciuto da tutti. Che talvolta, come capitato nella crisi del Tigray, sfocia in una capacità negoziale non indifferente. Peraltro, alcune operazioni importanti come la Grand Ethiopian Renaissance Darm, la grande diga idroelettrica sul Nilo blu dal valore di 4 miliardi di dollari la cui realizzazione è affidata al gruppo italiano WeBuild, confermano il grado di attenzione e di riscontro nei confronti del nostro Paese.

Qual è la situazione a Gibuti, dove l’Italia è presente con una base militare permanente?

Se dovessi descrivere oggi Gibuti, direi che è a metà strada tra la Casablanca di Humphrey Bogart e Forte Apache. Una fortissima connotazione strategica, che ne fa la porta del Mar Rosso e la sede di ben sette diverse basi militari di Paesi importanti come Stati Uniti, Francia, Repubblica popolare cinese, Italia, Spagna, Germania e Giappone. E sulla porta di casa un territorio come quello somalo dove si guarda con apprensione al radicamento di Al Shaabab e Daesh, col rischio terrorismo islamico sempre dietro l’angolo. Il tutto mentre la Cina pompa capitali nella gestione del porto, detenendo il 60% del debito estero gibutiano, e consolida la sua presenza economica con importanti progetti infrastrutturali, come la nuova ferrovia Addis Abeba-Gibuti e il nuovo terminal portuale in costruzione. Con gli Houthi e i loro missili sulle navi occidentali dall’altra parte di uno stretto braccio di mare. Una sorta di ombelico del mondo, dal quale passa la sicurezza economica e quella fisica dell’intero Mediterraneo. E quindi noi ci siamo dentro in pieno, con un lavoro straordinario delle missioni Eunavfor Atalanta e Aspides e con il fondamentale ruolo della base militare di supporto comandata dal colonnello Capriglione.

Davanti all’ascesa di Cina, Russia, Turchia e altri attori nella regione, quali spazi ci sono per l’Italia e l’Unione europea?

Domanda chiave. Intanto esserci, con la consapevolezza che non è la nostra periferia, ma il nostro avamposto più avanzato. Poi starci con le nostre caratteristiche, e costruire su queste basi un salto verso un approccio europeo. La fase del post colonialismo francese in Africa è alla fine, ma il rischio è che porti con sé vuoti colmati da altri Paesi, non democratici. L’Italia, che non ha doppie agende né secondi tempi post coloniali da giocare, può essere protagonista di un nuovo approccio europeo. Nel quale, attenzione, serve anche la sicurezza. In Africa questo bisogno è vivo: se Russia, Cina e Turchia sono interlocutori, è perché offrono anche sicurezza. Noi europei se ci fermiamo alle sole perorazioni sui diritti o sul climate change non andiamo distanti, mi creda.

Che cosa apprezza del Piano Mattei per l’Africa lanciato dal governo Meloni?

Intanto, da democristiano quale sono, apprezzo l’intitolazione al partigiano cattolico Enrico Mattei. Ma al di là di questo, mi sembra giusto un approccio di sistema, una politica integrata che abbandoni la logica caritatevole o quella paternalistica. In Africa si gioca il nostro futuro prossimo, è bene saperlo, e va giocato con le popolazioni di quel continente, insieme. Altrimenti tutto ci sfuggirà dalle mani, e alla fine ci si rivolgerà contro. Per evitarlo, è giusto un approccio alla pari e responsabilizzante.

Che cosa, invece, manca secondo lei nel piano?

Mancano due cose essenziali: un approccio europeo, perché l’Italia da sola non può fare gran che, e poi i soldi. Quando arriverà il momento della fine delle mozioni di intenti, e si passerà all’incasso, bisognerà farsi trovare pronti. E per farlo bisogna andarci come europei, possibilmente a guida italiana anziché isolarsi come stiamo facendo in queste ore. Altrimenti noi faremo convegni e pennacchi, e la China Merchant Holding mette sul tavolo in un giorno 600 milioni di dollari per le nuove banchine del porto di Gibuti. Ecco, il velleitarismo dobbiamo proprio evitarlo.

Nello specifico del Corno d’Africa, come pensa dovrebbe tradursi il Piano Mattei?

Non mi fermerei alle risorse pubbliche. Mobiliterei investimenti privati e presenza di imprese e stakeholders nazionali, soprattutto nei settori promettenti come energia, infrastrutture, formazione e cultura, agricoltura. Darei al pubblico il compito di indirizzo, di innesco dei processi, di enzima e di garanzia di cornice istituzionale e di sicurezza. Senza però dirigismi o neo partecipazioni statali, anche perché non possiamo competere per tanti motivi col modello cinese. E farei leva sulla struttura diplomatica che abbiamo, che è indubbiamente di livello.

Come affrontare Russia e Cina nel Corno d’Africa. Risponde Borghi (IV)

Il senatore è stato in missione in Eritrea, Etiopia e Gibuti. La presenza italiana è vista complessivamente bene: “Si riconosce il fatto di essersi totalmente emancipata dagli schemi coloniali”. Il Piano Mattei? “Mancano approccio europeo e soldi”

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