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Il forte incremento di violenza in Terra Santa (espressione mistico-territoriale omnicomprensiva), è solo una conferma che, ogni qualvolta si percepisce qualche sia pur flebile segnale di faticoso avvicinamento di posizioni di fatto inconciliabili, un nuovo evento dirompente riporta tutto a zero. Una sorta di tragico gioco dell’oca, ripetuto all’infinito.

La realtà è che Israele è nata con una guerra, e con le guerre – o guerriglie sul territorio o ai confini – ha dovuto convivere in questi suoi oltre settanta anni di vita. E continuerà così. Non lo si può considerare un problema, perché tutti i problemi ammettono una o più soluzioni.

Se la soluzione non c’è, allora è necessario cambiare linguaggio e rinominare  il “problema” con il suo vero nome, anch’esso preso in prestito dalla matematica: “fattore”, o “parametro”, o “costante”, o come meglio ci piace. Insomma, qualcosa di non modificabile, di cui siamo tuttavia obbligati a tener conto nella realtà quotidiana delle relazioni internazionali.

Le circostanze, la collocazione geografica, i fattori etnico-religiosi, i diversi tassi di natalità, tutto, proprio tutto, concorre a far sì che la politica e la strategia militare  non possano che riassumersi in un “must” non eludibile: Israele è condannata a vincere, perché non può permettersi di perdere. Mai.

Per questo, quando si tratta della propria identità, dell’integrità territoriale e della sicurezza dei suoi cittadini, va dritta allo scopo e non sta a sentire nessuno. Nel recentissimo passato a chi avrebbe dovuto dar retta, a Barack Obama? Assieme alla Francia, ha disastrato il Medioriente più di quanto già non fosse. A Donald Trump? Persino Joe Biden riconosce (anche se non lo dirà mai) che con il Patto di Abramo almeno ci ha provato, sia pure con grande scorno per i palestinesi. All’Assemblea dell’Onu o al Consiglio di Sicurezza? Innumerevoli, negli anni, sono state le risoluzioni impossibili da applicare, e comunque sempre favorevoli ai palestinesi. All’Unione Europea? Anche questa volta, l‘entità risulta “non pervenuta”.

Ecco perché Israele, pur avendo riorganizzato dopo la guerra in Libano e l’attacco a Gaza del 2014 le forze armate per far fronte non più alle divisioni corazzate degli eserciti arabi  – che comunque ha sempre sconfitto – ma a nuove e più subdole minacce, mantiene le caratteristiche di Stato mobilitato.

Il suo problema, semplicemente, è di natura esistenziale: il popolo lo sa, e nel pericolo lascia cadere ogni diatriba e graniticamente si coalizza. Ecco perché anche l’Occidente deve comprendere che, quando si tratta di Israele, concetti o parole come “diritto di autodifesa, reazione sproporzionata, attacco preventivo, guerra nel territorio nemico” assumono un significato molto relativo, perché assolutamente non misurabili con le logiche comuni, qui non applicabili. L’Occidente critica, ma non ha proposte che non si figurino come chiacchere vacue: nessuno Stato occidentale, infatti, corre pericoli esistenziali. Israele, al contrario, è obbligata a conviverci perfino nel quotidiano, ed ha imparato a farlo.

Ora, ci risiamo. Stando così le cose, è inutile cavillare su torti o ragioni. Quello che è certo, e dopo tanti anni dovremmo averlo capito, è che se Hamas (che nello Statuto prevede la distruzione di Israele) non viene entro breve tempo a più miti consigli, l’assegno in bianco che il popolo israeliano ha messo nelle mani di Thshaal verrà presentato a riscossione.

Come nel 2014, la mobilitazione delle riserve è già in atto, per avere i numeri necessari a consentire un minimo di controllo del territorio nel caso che gli specialisti (la Brigata Golani, in cui militano molti drusi, è già pronta) entrino davvero nella Striscia al seguito dei carri armati  per setacciare bunker, scantinati, depositi di missili iraniani e distruggere gli ultimi tunnel che hanno resistito al martellamento degli F-16 con la stelle di David.

C’è da augurarsi  che l’invasione di terra non avvenga e che le bombe guidate ad alta penetrazione, di cui l’Aviazione ha ampie riserve, risolvano il problema prima che la campagna mediatica mobiliti l’opinione pubblica di coloro che sentenziano senza aver mai conosciuto pericoli esistenziali, orchestrando il consueto coro di lamenti per le “vittime civili” ed i “bambini sotto le macerie”.

Dopo una partenza tardiva ed incerta, il pellegrinaggio della diplomazia occidentale verso Gaza e Gerusalemme finalmente è cominciato e forse arriverà anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Ma, in questa situazione di tutti contro tutti, è possibile che ciò non abbia altro risultato se non quello di aggiungere un’altra inutile dose di entropia ai tanti, seppur doverosi, sforzi diplomatici del passato. Militarmente, con o senza invasione, anche questa volta Israele vincerà la battaglia, ma non la guerra. Persino Benjamin Nethanyahu, che tirerà dritto in ogni caso, sa bene quanto questo tipo di vittoria sia effimero.

Ma che altro fare? La necessità di vincere per non soccombere ormai ha spazzato via ogni razionalità.  Sotto questo profilo, è stallo completo.

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Se Hamas non viene entro breve tempo a più miti consigli, l’assegno in bianco che il popolo israeliano ha messo nelle mani di Thshaal verrà presentato a riscossione. L’analisi di Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa

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