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Quei terroristi arrestati nei giorni scorsi in Francia e destinati, prima o poi (più poi che prima, a quanto pare) ad essere restituiti alla giustizia italiana ci ricordano che il tempo e la memoria non sono mai delle variabili indipendenti nella vita dei paesi e nei processi politici che li attraversano.

A tutti noi piace pensare che il tempo, con la sua corsa un po’ affannosa, ci liberi in fretta almeno di alcuni fardelli del passato. E così diventa facile rimuovere, e tra di noi s’è perso perfino il ricordo di quella stagione – gli anni di piombo – nella quale si sparava quasi ogni giorno, e ogni giorno si viveva nell’incubo di nuove violenze. All’epoca, un bel pezzo della nuova generazione si lasciò suggestionare da un’idea cupa dello Stato e dei suoi apparati; e da un’idea facile e fasulla di una rivoluzione che si sarebbe potuta compiere a suon di attentati.

Ora, per fortuna, siamo lontani da quella stagione. Ma non così lontani da poter sospendere la riflessione che riguarda le sue origini e le sue conseguenze. E chi quella stagione l’ha vissuta, o anche solo sfiorata, a sua volta ha il dovere di ricordare come si arrivò a quel punto drammatico: scivolando di giorno in giorno, quasi senza avvedersene, lungo la china di una lettura velenosa e fuorviante della politica e dei suoi conflitti.

Quella lettura è consegnata agli archivi, per nostra fortuna. Ma non possiamo trascurare il fatto che quando si appicca l’incendio della violenza politica, tutt’a un tratto quell’incendio può divampare e bruciare generazioni che finiscono per credervi e infine sacrificare una quantità di vittime che ne subiscono le conseguenze più estreme.

Quella volta, correvano gli anni settanta, fummo colti alla sprovvista. E la conseguenza fu quella che ci ritorna addosso in questi giorni con l’elenco dei morti e dei feriti, delle vittime e dei colpevoli, degli eventi e dei giudizi. Sciogliere quel nodo, a questo punto, non significa pregare il dio della vendetta con animo di compiaciuti forcaioli. A nessuno, però, è neppure consentito di praticare la dimenticanza e far finta che certi conti possano essere saldati solo dal trascorrere del tempo e infine archiviati con leggerezza.

Ma il tempo, e la memoria, in questa occasione ci presentano anche un altro conto. E non è quello della fretta, dell’ansia, della disinvoltura eccessiva con cui apriamo e chiudiamo i capitoli della nostra storia. Al contrario, è il conto della eccessiva lentezza con cui procedono i meccanismi della giustizia. Così lenti e farraginosi da consentire a molti dei protagonisti di trovare vie d’uscita, magari all’estero. E ancora, così lenti e farraginosi da far immaginare che l’estradizione, se si completerà, avrà bisogno ancora di due, tre anni.

Ora, la Magna Charta, il documento che dà inizio alla stagione dei diritti, all’articolo 40 recita così: “è illegale negare la giustizia, differirla o renderla oggetto di compravendita”. Come a dire che differire il giudizio vale quanto negarlo. Argomento che suona particolarmente severo verso il nostro Paese, che è campione di ritardi. Ma che evidentemente non riguarda solo l’Italia.

Insomma, il nostro passato sta sempre nascosto dietro qualche angolo, e da un momento all’altro ci si può ripresentare in forma di spettro. Ma anche gli spettri, anzi soprattutto loro, hanno diritto a un giudizio tempestivo. Nelle aule dei tribunali e nella coscienza della pubblica opinione.

Anni di piombo, il conto della memoria. La riflessione di Follini

C’è un’eccessiva lentezza con cui procedono i meccanismi della giustizia. Così lenti e farraginosi da consentire a molti di trovare vie d’uscita, magari all’estero, e immaginare che l’estradizione, se si completerà, impiegherà anni. Ma per la Magna Charta, differire il giudizio vale quanto negarlo

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