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Due avvenimenti recenti, all’apparenza con poco in comune, ispirano una riflessione sull’incidenza attuale della politica estera italiana in Europa.

Sono il Consiglio Affari Esteri sui Balcani Occidentali tenutosi il 10 maggio a Bruxelles ed il ricorrere del secondo anniversario della scomparsa di Gianni De Michelis, titolare della Farnesina dal 1989 al 1992.

Non servono sofisticate comparazioni per affermare, con serena obiettività, che il peso specifico della politica estera italiana in questi tre decenni è calato, nonostante le qualità del suo personale diplomatico siano rimaste al livello della sua fama.

Meno scontate sono origini e ragioni di questa marginalizzazione, di cui si parla ancora poco, accettata come dato ineludibile e drammatizzata col tipico fatalismo catastrofista nostrano che stende veli pessimisti su tutto. Passato, presente e futuro.

La tesi qui proposta è che in realtà non tutto è perso e che molto di quello che è rimasto è riconducibile a scelte che fece De Michelis, proprio a partire dai Balcani, dove ancora oggi è ricordato con un rispetto raro per una figura politica italiana.

Per le Relazioni Internazionali, il passaggio italiano dal 1992 al 1993 è cruciale non tanto per la fine della Prima Repubblica quanto per il devastante effetto collaterale che ebbe sulla politica estera del paese. La stagione di Mani Pulite non cambiò solo sistema politico ma anche gli attori che lo animavano e le loro caratteristiche.

Con la Seconda Repubblica le questioni internazionali passarono in secondo e terzo piano e il baricentro si spostò sulle vicende di politica interna, dominate da azioni giudiziarie in campo politico-istituzionale.

In pochi mesi un’intera classe dirigente abile a gestire il delicato posizionamento italiano durante il bipolarismo e la Guerra Fredda fu spazzata via e sostituita con un personale politico più interessato di Giustizia che di Esteri.

Seguì un repentino declino di influenza a livello europeo, sancito dalla paradossale irrilevanza di Roma nella Comunità Internazionale impegnata nei vicini Balcani.

Eppure i primi anni della crisi ex-jugoslava (1990-1991), a ridosso di Mani Pulite, erano stati gestiti a pieno dalla vecchia classe politica, tra cui spiccava un De Michelis protagonista assoluto nelle negoziazioni europee sui Balcani (come l’iniziativa della Quadrangolare, divenuta Pentagonale nel 1990).

Ideatore di un approccio preso a modello nelle cancellerie dell’epoca, riuscì nella difficile impresa di avanzare metodi innovativi di politica estera e di affidarne la realizzazione alla Farnesina, con una sinergia tra scelte di governo e tecnica diplomatica rimasta ad oggi senza pari.

Alla base dell’azione di De Michelis vi era una impostazione che potremmo definire di real politik riformista. Scevro dai retaggi ideologici che ancora imperversavano da sinistra a destra (dalla difficoltà del PCI di Alessandro Natta ed Achille Occhetto ad accettare il declino dell’Urss a Gianfranco Fini incatenato al confine italo-sloveno di Gorizia), aveva intuito che le nuove crisi del post-bipolarismo richiedevano una soluzione multilaterale.

E che questa sarebbe dovuta passare per un rafforzamento delle prerogative in politica estera dell’allora troppo debole Comunità Economica Europea.

Per quanto riguarda l’Italia, fu tra i primi a intuire di compensare con la diplomazia commerciale e culturale quel gap di attrattiva politica che il Belpaese avrebbe subito in seguito al calo della propria importanza strategica nel mondo post-bipolare.

Si inaugurava quella stagione di promozione italiana e del suo terziario nel mondo che si è trasformata, con il venire meno delle certezze del mercato interno, nella principale àncora di salvezza sociale ed economica del paese,

Da titolare del dicastero degli esteri, fece valere tutto il suo peso politico per realizzare quello che è stato l’ultimo piano di investimento quadro in struttura e personale per rafforzare la Farnesina tutta (e non solo gli amici, come di prassi).

Gli valse la stima dei diplomatici, in genere distaccati dalla politica elettiva, a tal punto che un ambasciatore del calibro di Boris Biancheri arrivò a definirlo il migliore ministro degli affari esteri italiano del dopoguerra.

Riguardo ai Balcani, che da veneto qual era conosceva molto bene, ebbe il merito di concepirli senza pregiudizi come spazio comune dell’Europa Centrale piuttosto che fronte opposto dell’Est comunista.

Riuscì a tenere rapporti equilibrati con le diverse anime emergenti ex-Jugoslave, senza farsele nemiche e convincendole che le mire italiane su quei territori erano solo commerciali e non revansciste.

Soprattutto, fu uno dei pochissimi – forse l’unico – a capire con pragmatismo quando la difesa della Jugoslavia era diventata impossibile e il separatismo Croato e Sloveno andava non solo accettato ma sostenuto, insieme a tutto l’arco costituzionale dell’epoca – da Flaminio Piccoli a Francesco Cossiga; da Piero Fassino a Marco Pannella.

De Michelis ha aperto a quella prassi di mentoring e sostegno internazionale di Roma nei confronti della ex-Jugoslavia che porterà alla sponsorizzazione convinta italiana dell’ingresso di Lubiana e Zagabria nella Ue a sarà da ispirazione alla presidenza CE di Romano Prodi.

Quando Luigi di Maio a Bruxelles oggi esorta ad andare con più convinzione nella direzione dell’allargamento della Ue nei Balcani (nel medio periodo a Macedonia del Nord e Albania – per poi passare a Serbia e Montenegro)  si pone in continuità con questa linea politica tradizionale di Roma, che combina interessi europei e italiani. Diplomaticamente credibile perché consolidata nei decenni.

Nel paese che celebra il Governo attuale con la stessa determinazione con cui rimuove quello passato, è bene ricordare i meriti storici che ha avuto la figura di De Michelis. A maggior ragione oggi che non è un più un avversario politico.

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