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Durante il ritiro dall’Afghanistan si è scatenato il “gioco delle accuse”, soprattutto nei confronti di Joe Biden. Difficile è dire se le cose avrebbero potuto svolgersi in modo molto differente, una volta deciso il ritiro. Biden aveva le mani legate dagli accordi conclusi dal suo predecessore con i Talebani il 29 febbraio 2020.

La politica interna escludeva sia il mantenimento dello status quo sia l’aumento massiccio di altri soldati e l’adozione di una strategia offensiva contro i Talebani. Ormai essi avevano il controllo delle campagne e anche di gran parte dell’esercito di Kabul. I rapporti del Congressional Research Service sono chiarissimi al riguardo. Giustificano il fatto che la priorità di Biden fosse il ritiro ad ogni costo.

Anche gli alleati della Nato erano d’accordo. Oggi molti approfittano dell’unilateralismo Usa nella gestione del ritiro per dare a Biden dello sprovveduto e per definire gli Usa una potenza in declino e, comunque, traditori degli Afgani e degli alleati.

Eppure quando Biden il 14 aprile scorso aveva annunciato in ritiro e di averne spostato la data dal 1° maggio, previsto da Trump all’11 settembre – anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, poi fatto spostare dai Talebani al 31 agosto, per non essere associati ad esso – tutti avevano applaudito. La decisione era stata addirittura definita “storica” dal nostro Ministro degli Esteri.

A parer mio, essa era più che giustificata. Eravamo andati in Afghanistan per solidarietà con gli Usa. Quindi, ben contenti di andarsene una volta che essi avessero deciso di farlo. Le opinioni pubbliche erano sempre più opposte all’idea di continuare a stare in Afghanistan, la cui sorte interessava solo i più idealisti.

Ora si accontentano delle litanie sulla sorte delle donne afghane e si commuovono per le fotografie dei soldati con in braccio bambini afgani da salvare, senza chiedersi perché ci sia sempre presente un fotografo per immortalare la scena. Lo spirito marziale degli americani è stato certamente sostenuto dalla foto del comandante della 82^ Airborne che per ultimo saliva sull’ultimo aereo da Kabul. Tutto normale! La società dei media ha le sue esigenze, regole e trucchi.

Nessuno può prevedere con certezza che cosa capiterà in Afghanistan e come verrà modificata la geopolitica dell’Asia Centrale e Meridionale. A parer mio, gli Usa hanno lasciato alla Cina e alla Russia e forse anche all’Iran e al Pakistan una “polpetta avvelenata”. Al-Qaeda, pur strettamente associata ai Talebani come prima del 2001, è troppo indebolita per costituire un rischio terroristico globale.

Non per nulla al-Zawahiri ne ha costituito una nuova costola – al-Qaeda nel Subcontinente Indiano – con vocazione terroristica regionale come lo sono i “Movimenti Islamici” dell’Uzbekistan e del Turkestan Orientale (cioè del Sinkiang cinese). Lo Stato Islamico del Korasan, legato ai Talebani pakistani, combatte sia i Talebani afgani sia al-Qaeda.

Del ritiro dall’Afghanistan si parlava già all’inizio del 2002. Gli Usa avevano aiutato l’Alleanza del Nord a cacciare il governo talebano di Kabul, perché non aveva loro consegnato Osama bin-Laden, organizzatore degli attentati dell’11/9. Poi pensavano di ritirarsi, disinteressandosi dell’Afghanistan, come avevano fatto dopo l’occupazione sovietica.

Purtroppo per loro e per noi, bin Laden se ne era scappato. Fu ucciso solo dieci anni dopo. Restammo tutti “incastrati” in Afghanistan. In assenza del “demonio” da uccidere, ci inventammo una “nazione da costruire”. Con Bush jr. i soldati Usa erano 8.000. Con il surge di Barack Obama – malgrado la forte opposizione del suo vice Biden – divennero 100.000. Poi furono ridotti, visto che i loro risultati erano scarsi.

Già Obama voleva ritirarsi. Trump, preso atto che i Talebani avrebbero vinto, decise di negoziare con loro il ritiro. Approfittò del fatto che l’ex-presidente Karzai era molto legato con il disinvolto inviato americano per l’Afghanistan, Khalizad (erano stati colleghi all’Unocal) per seguirne il consiglio di far liberare dal Pakistan il mullah Abdul Ghani Baradar, già vice del mullah Omar, capo dei Talebani nel 2001 con cui Karzai era in stretto contatto.

Baradar è un pragmatico. Si è rivelato un astuto negoziatore. Quello accettato da Trump nel febbraio 2020 –consultabile sul sito del governo americano – più che accordo sembra un patto di resa. I Talebani ottengono tutto in cambio solo di promesse, senza che vengano previste sanzioni credibili in caso di loro violazione: ritiro delle forze; negoziati con Kabul per costituire un governo di transizione; rispetto dei diritti umani, pur subordinando la condizione femminile alla loro interpretazione della Sharia; governo inclusivo delle variegate realtà afgane; rottura dei legami con le organizzazioni terroristiche straniere (al-Qaeda non viene menzionata); ecc. L’unico impegno rispettato dai Talebani è stato quello di non contrastare il ritiro degli occidentali e, almeno in parte, l’evacuazione dei cooperanti.

Di certo gli Usa erano consapevoli della fragilità dell’accordo. Non per nulla Trump ne ha rimandato l’attuazione dopo le elezioni presidenziali. È andato comunque diritto, licenziando il suo Segretario alla Difesa Esper, che lo aveva criticato.

A sostegno della sua decisione, ha addotto due fatti. Primo, che poteva fidarsi dei Talebani per che nel 2019, avevano attaccato l’ISIS-K contemporaneamente agli Usa e all’esercito di Kabul, riducendone i combattenti da 4.000 a 2.000. Secondo, lo strumento di pressione costituito dal controllo Usa delle riserve monetarie afgane.

L’efficacia di quest’ultimo è negata da molti. I Talebani giustificano il loro potere con la rigida fedeltà alla Sharia. Per loro il potere è più importante del mangiare. Tireranno la cinghia. Mi sembra velleitario voler aiutare l’affamato popolo afgano, passando per l’Onu e le Ong e non per il governo talebano.

 

Foto: Al Jaazera

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