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Ora mancano sessanta chilometri. Poi c’è Kabul. L’Afghanistan è ripiombato nella morsa del terrore. Le milizie talebane avanzano inevitabilmente: è caduta anche Herat e gli americani sono pronti all’evacuazione del personale a Kabul. «È stato un errore strategico degli Stati Uniti. L’annuncio dell’arretramento è stato troppo repentino e mal gestito». Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d’Italia-Ecr al parlamento europeo e responsabile Esteri del partito di Giorgia Meloni, non usa mezzi termini. “Già quando facevo parte della delegazione europea per l’Afghanistan le autorità locali e la società civile ci chiedevano di non vanificare il lavoro fatto. In questo modo invece, si è gettato tutto all’aria”.

Fidanza, l’intendimento del presidente americano Biden era quello di far assumere a questo ritiro della forze un valore simbolico in vista dell’anniversario dell’11 settembre.

E invece è stato un boomerang. Tanto più che questa comunicazione avventata ha portato ad una vera e propria rotta, incidendo sul morale sia dei civili che delle forze regolari che in questi venti anni avevamo faticosamente addestrato. Il messaggio lanciato da Biden è stato assolutamente irresponsabile.

Trump ha scritto che se lui fosse stato ancora inquilino della Casa Bianca avrebbe evitato questo “questo disastro”. Si sente d’accordo?

Non abbiamo la sfera di cristallo. Certamente la linea di Trump era diversa da quella di Biden, così come diverso era il modus operandi. Ferma rimanendo l’intenzione di un ritiro progressivo delle truppe. Ma in questo momento c’è anche qualcosa che dipende dal nostro governo.

Ovvero?

Ci sono centinaia di interpreti e funzionari che in questi anni hanno lavorato assieme alle forze Occidentali che, in questo momento, temono per la loro incolumità. D’altra parte sono i primi bersagli della rappresaglia talebana. Ne sono stati portati in Italia alcuni. Salvarli tutti è un dovere morale.

Quale scenario prevede ora?

Sicuramente si cercherà di arrivare a una tregua con i negoziati di Doha. Ma l’avanzata sul campo da parte delle forze talebane è imperiosa. Temo quindi che le forze ribelli si siederanno al tavolo della trattativa solamente a guerra vinta.

In passato lei è stato a Herat in delegazione. Che effetto le ha fatto veder garrire le bandiere dei talebani sulla città conquistata?

È stato un colpo al cuore. È stato vanificato tutto lo sforzo fatto dal nostro contingente là. A Herat gli italiani erano ben visti e ben voluti, più degli americani. Abbiamo costruito case e scuole. E laggiù abbiamo perso 53 uomini, il cui sacrificio è stato reso vano da questa ritirata suicida. Tuttavia, la questione afghana ha anche contorni di geopolitica molto rilevanti.

Chi sono gli attori in campo?

Beh, sicuramente i vuoti lasciati dall’Occidente verranno riempiti, soprattutto dalla Cina e in parte anche dalla Turchia. Per quanto riguarda il paese del Dragone, le mire sono chiare: aggiungere anche l’Afghanistan come ulteriore tassello della via della Seta. E, anche la Turchia di Erdogan, potrebbe unire l’aspetto economico a quella di garante dell’Islam politico, come fa in maniera sempre più spudorata in diversi scenari, dal Mediterraneo al Corno d’Africa.

Alla luce di questi presupposti quali devono essere i rapporti fra Italia e Stati Uniti?

Complici la parabola discendente di Merkel e la campagna elettorale in Francia, Draghi si trova in una condizione favorevole nell’ambito della politica internazionale. La proiezione su Biden, tanto sbandierata, ha rappresentato per lui un investimento politico rilevante. La priorità doveva essere la stabilizzazione della questione libica, specie sul fronte migratorio. Fino ad oggi, tuttavia, i risultati tangibili sono stati ben pochi. D’altra parte la nostra debolezza in generale sul frangente della politica estera è lampante. La dimostrazione plastica è racchiusa nel caso dell’imprenditore italiano Andrea Costantino, detenuto senza motivo ad Abu Dhabi da mesi per via di un contenzioso folle aperto dall’Italia contro gli Emirati, un attore strategico nell’area.

La prospettiva dell’elezioni in Germania e Francia che tipo di quadro consegnerà?

Difficile a dirsi. In Francia la situazione è molto aperta, specie alla destra di Macron. Sul fronte dei gollisti c’è una presenza di elettorato importante, confermato dalle ultime regionali. L’auspicio è che in futuro possa nascere a destra una proposta politica che saldi il meglio del gollismo con l’elettorato lepenista che vuole superare la storica marginalizzazione. In Germania negli ultimi anni la Cdu ha scelto, sbagliando, di abbandonare le tematiche di destra, lasciando spazio all’Afd e perdendo consenso tra i propri elettori storici. Il rischio di un ulteriore scivolamento del prossimo governo verso sinistra è evidente.

C’è fermento in Europa. Orban che collocazione avrà?

Noi abbiamo ribadito la centralità del gruppo dei Conservatori (ECR) come casa naturale delle destre di governo europee. Giorgia Meloni è impegnata a rafforzarla e ad allargarla. È questa una delle principali opzioni sul tavolo anche di Orban che immaginiamo possa sciogliere la riserva entro la fine dell’anno. Continuiamo a lavorare, l’autunno porterà consiglio.

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