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Ci sono dinamiche che sfuggono alla superficie. Accadono nel sottobosco del potere, nelle aree grigie dove la legge incontra la responsabilità, dove la sicurezza dello Stato non è una formula, ma un equilibrio fragile, costantemente rimesso in discussione. In quei territori – riservati più che segreti – non esistono automatismi. Ogni decisione è un peso, ogni autorizzazione una garanzia, ogni atto un rischio valutato. È lì che si esercita il vero potere della Repubblica: non nel controllo, ma nella misura.

Il caso dello spyware Graphite, oggetto della recente relazione del Copasir, ha acceso i riflettori su un frammento di questo mondo. La questione non è tanto tecnica – chi ha autorizzato cosa, con quali strumenti, in quali tempi – ma più profonda: quale idea di sicurezza stiamo costruendo in un’epoca in cui la tecnologia può tutto, e la sorveglianza non ha più confini visibili. Dai documenti emerge una macchina che ha funzionato. Le regole sono state rispettate, le autorizzazioni ottenute, i controlli esercitati. Le agenzie, i vertici, i referenti istituzionali si sono mossi entro il perimetro della legge, con prudenza e proporzione. Ma, a ben vedere, il punto non è “se” lo Stato abbia rispettato i limiti. Il punto vero è “chi” li ha rispettati. Perché a garantire ogni passo, ogni soglia, ogni bilanciamento, sono stati uomini. Donne e uomini dello Stato. Non algoritmi.

Lo strumento – per quanto potente – è solo uno strumento. Graphite, come ogni spyware avanzato, può entrare in un dispositivo con un file pdf, aggirare difese, leggere messaggi, intercettare dati. Ma non decide da solo quando agire, né cosa fare di ciò che trova. A decidere è sempre qualcuno. A valutare, a selezionare, a escludere. E questa catena di responsabilità è ciò che distingue uno Stato democratico da un apparato arbitrario. Oggi si parla molto di intelligenza artificiale, di autonomia decisionale, di sistemi predittivi. Ma il cuore della sicurezza resta profondamente umano. E questa è una buona notizia, ma anche un compito. Perché se tutto dipende dagli uomini, allora tutto dipende dalla loro formazione, dalla loro etica, dalla loro consapevolezza istituzionale. E questa non è una variabile neutra: è una funzione strategica dello Stato. C’è una fiducia da riaffermare, allora, non ingenua né retorica, ma fondata sull’esperienza: quella nei nostri servizi di informazione, nel loro silenzioso presidio, nel rigore con cui affrontano una realtà sempre più complessa.

Chi ha avuto modo di osservarne da vicino le dinamiche – nelle audizioni, nei sopralluoghi, nelle attività di vigilanza – sa che non si tratta di un potere oscuro, ma di un tessuto di professionalità, competenze e disciplina. La questione, semmai, è culturale. È la capacità dello Stato di continuare a porsi domande alte, anche quando la tentazione sarebbe quella di delegare tutto alla macchina. L’intelligenza artificiale, per sua natura, tende ad automatizzare. Ma la sicurezza richiede discernimento, e il discernimento è un atto umano, deliberato, soggettivo. E quindi anche fallibile, ma proprio per questo da proteggere. C’è poi un altro tema, ancora meno visibile, eppure decisivo: la riservatezza. Non tutto può essere detto. Non tutto deve essere reso pubblico. E non per coprire o nascondere. Ma perché la forza dello Stato risiede anche nella discrezione dei suoi servitori.

La riservatezza non è la sorella minore della segretezza. È qualcosa di più nobile: è la capacità di non sovraesporre ciò che lavora per la libertà degli altri. Di lasciare che certe cose restino dove devono stare, perché solo lì possono funzionare. Questo riguarda anche la comunicazione istituzionale. In un’epoca in cui tutto si trasforma in flusso continuo di parole e commenti, l’intelligence resta, e deve restare, un presidio di contenimento. Non si difende lo Stato partecipando al rumore. Lo si difende proteggendo gli snodi dove l’informazione diventa decisione. Dove la notizia non è una breaking news, ma un pezzo di realtà da interpretare con prudenza.

Infine, il dibattito normativo. La relazione del Comitato solleva con lucidità il nodo: i messaggi archiviati sui dispositivi sono corrispondenza? E quindi necessitano di un vaglio giurisdizionale? La Corte costituzionale si è già espressa. Ora serve che il Parlamento riprenda il filo e costruisca una nuova architettura di tutela, non per frenare i servizi, ma per sostenerne l’autorevolezza. Perché più la tecnologia si fa invasiva, più lo Stato deve mostrarsi misurato. In questo quadro, il controllo parlamentare non è un ingombro, ma parte della catena istituzionale. È lo sguardo che vigila senza invadere. Che osserva, conosce, ma non espone. Un controllo che rafforza non indebolisce. Perché lo Stato forte non è quello che fa tutto da solo. È quello che accetta di essere visto da chi ha il dovere di capire. La sicurezza non sarà mai un automatismo. È e resterà un esercizio umano. E proprio per questo fragile, esigente, ma anche straordinariamente nobile. Nel momento in cui tutto sembra affidabile solo se è automatizzato, dobbiamo ricordare che l’affidabilità vera nasce dal carattere, dalla formazione, dal senso del limite di chi serve lo Stato. E finché queste persone esisteranno, e verranno messe nelle condizioni di lavorare con dignità, allora potremo dire di vivere in una Repubblica che sa proteggersi.

Tecnologie, uomini e silenzio. Il caso Graphite letto da Volpi

Di Raffaele Volpi

La recente relazione del Copasir sullo spyware Graphite offre uno spunto per riflettere sulle dinamiche profonde della sicurezza nazionale, che si sviluppano oltre la tecnica, nel terreno della responsabilità istituzionale. Le operazioni si sono svolte nel rispetto della legalità e delle garanzie previste, ma il fulcro resta umano: sono le persone, non gli algoritmi, a esercitare discernimento, misura e controllo. La riflessione di Raffaele Volpi

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