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Il primo dicembre 2020 è cominciata la presidenza italiana del G20. Toccherà al governo Draghi ospitare i leader internazionali a Roma il 30-31 ottobre 2021, a seguito delle varie ministeriali che si terranno da maggio in poi, compatibilmente con l’evoluzione della pandemia. Il 21 maggio è inoltre previsto a Roma il Global Health Summit. In che modo Draghi svolgerà un ruolo in questi appuntamenti internazionali?

Non bisogna esagerare, attribuendo a Draghi sensibilità specifiche in ogni ambito dello scibile umano e dell’agenda della politica internazionale. Una delle caratteristiche di Draghi è la capacità organizzativa, che ha mostrato già negli anni del Tesoro: inserire nelle organizzazioni competenze dall’esterno, motivare la macchina interna per raggiungere gli obiettivi, scegliere cosa seguire in prima persona e cosa delegare. È ragionevole pensare che, sui temi con cui non ha troppa confidenza, Draghi adotti un metodo simile, visto che la priorità della sua azione di governo sarà la presentazione e la prima fase di attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza. Si può pensare che Draghi incida in particolare su due aspetti cruciali: i rapporti con gli Stati Uniti e i rapporti con i maggiori azionisti dell’Unione Europea.

Sul primo punto, le discussioni politiche italiane sono abituate ad accentuare il ruolo degli Stati Uniti nelle nostre vicende interne. Nel contesto attuale, emerge il tentativo da aruspici di indagare nelle viscere dell’amministrazione Biden per scorgere il posto dell’Italia. Un metodo che pecca di eccessiva attenzione per i rapporti personali e per la cornice, rispetto ai contenuti, visto che viene spesso declinato nei seguenti termini: “Cosa farà X, ora che non c’è più Trump?”; “Ma è vero o no che Y è amico di Biden?”. E così via. Per un’analisi più matura, oltre ai rapporti personali bisogna considerare il contesto (il posto dell’Italia nella prospettiva di Washington) e, sulla base di esso, valutare le forze in campo, tenendo conto anche dell’evoluzione politica in Francia e soprattutto in Germania, nell’imminenza della fine del lungo cancellierato di Angela Merkel, e in una fase di interrogazione profonda della Germania sul proprio futuro, che Washington guarda senz’altro da vicino. Inoltre, il contesto deve tenere conto della priorità strategica per gli Stati Uniti: la “competizione estrema” con la Cina, per utilizzare le parole di Joe Biden. Ecco emergere una questione di fondo: dov’è la Cina nel mondo di Draghi? A parte le normali relazioni che caratterizzano il club delle banche centrali e la vicenda della crisi asiatica degli anni Novanta (un tema di grande interesse per i dibattiti tra economisti e policy-makers impegnati nelle istituzioni internazionali), la Cina non gioca un ruolo di primo piano nel suo schema del mondo e nei suoi rapporti.

Cosa implica questo per l’Italia? Si tratta di un bagno di serietà che sarebbe comunque arrivato, e che viene anticipato, rispetto alle azioni italiane nel rapporto tra Stati Uniti e Cina. Nel corso del tempo, emergerà sempre di più che l’adesione italiana alla Belt and Road Initiative del 2019 è stata un caso di sprovvedutezza, per usare le categorie spiritose di un economista che Draghi conosce e cita, Carlo Cipolla. Un celebre libello di Cipolla è dominato dalla categoria dello “stupido” (chi danneggia sé e gli altri), ma comprende anche lo “sprovveduto” (chi danneggia sé e avvantaggia gli altri). Delle leggi della stupidità umana fa quindi parte anche la morfologia della sprovvedutezza. Appunto, l’adesione italiana alla Belt and Road Initiative del 2019 rientra in quest’ultima categoria: l’Italia, non cogliendo che si trattava di un’iniziativa simbolica tanto per gli Stati Uniti che per la stessa Cina, l’ha invece caricata di significato economico e commerciale.

In questo modo, l’Italia ha paradossalmente danneggiato anche le relazioni economiche ordinarie con la Cina, avvantaggiando invece altri paesi europei che hanno aumentato gli affari con Pechino senza stare a firmare chissà quali carte. Sul piano economico, l’Italia non ha compreso che la penetrazione del mercato cinese da parte di altri attori – in primo luogo la Germania – è figlia di un rapporto di lungo periodo delle grandi imprese e delle classi politiche, un rapporto in ogni caso alterato dopo il caso Midea-Kuka del 2016 (l’acquisizione della robotica tedesca da parte cinese). Senza questi elementi, è inutile baloccarsi su un aumento magico e illusorio dell’interscambio commerciale con la Cina, che peraltro per noi, come mostrato dai dati, è molto meno rilevante di quello con i partner europei e con gli Stati Uniti.

Questo “diversivo” cinese ha ormai perso la sua forza propulsiva. Sarà in ogni caso utile valutare alcune partnership avviate dal 2014 a oggi, per verificarne l’evoluzione, il senso e la prospettiva (come Shanghai Electric con Ansaldo Energia e State Grid con cdp Reti). I veicoli partecipati dallo Stato debbono muoversi con una consapevolezza geopolitica che in troppe occasioni si è mostrata, per usare un eufemismo, lacunosa. In essi non sono presenti competenze e strutture in grado di effettuare queste analisi in modo adeguato. Queste considerazioni non devono portare l’Italia a un errore opposto, cioè a credere che la Cina sparirà dall’orizzonte.

Tutt’altro: Pechino rimarrà la principale potenza manifatturiera mondiale e sarà un centro eccellente di innovazione, un punto di riferimento per il 5G, il 6G, la corsa quantistica e la nuova corsa allo spazio. Ma l’esistenza di una grande potenza non determina di per sé i rapporti che con essa debbono essere intessuti, anche perché questo orientamento può portare alla distrazione rispetto alle cose concrete. A questo proposito, l’idea dell’avvento di investimenti cinesi “magici” in Italia ha scontato comunque un errore di fondo di analisi della realtà e di individuazione delle priorità. Siccome nel mondo esiste un’enorme disponibilità di liquidità, per attirare investimenti bisogna anzitutto incidere sui problemi strutturali della competitività e dell’ambiente di impresa, che si tratti di porti, di telecomunicazioni o di altro.

In Italia, è inutile esaltare le prospettive del 5G, se non guardiamo che cosa non ha funzionato nel Piano Banda Ultralarga, un piano interamente finanziato e che ha scontato ampi ritardi per un concorso di fattori (capacità organizzativa e di filiera del concessionario, litigiosità tra le imprese, e soprattutto autorizzazioni farraginose e lentissime da parte delle autorità competenti) che vanno affrontati e risolti tutti, con onestà intellettuale. Altrimenti non si vede perché la liquidità globale – e interna – dovrebbe guardare all’Italia. Detto questo, per l’Italia esistono ed esisteranno comunque linee rosse di sicurezza, che è utile considerare fin da subito, visto il sistema in cui siamo collocati.

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