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“Il Khuzestan ha sete”. Da dieci giorni la popolazione della più ricca delle province iraniane — sebbene per paradosso quella in cui le persone vivono in condizioni peggiori — protestano a causa della crisi idrica. Dimostrazione di come la mancanza d’acqua sia già un argomento alla base di equilibri (geo)politici, e tanto più lo sarà nei prossimi anni con il peggiorare degli effetti del Global Warming.

Il Khuzestan è teoricamente ricchissimo: tappo del Golfo Persico al confine con l’Iraq, è la provincia in cui è contenuto il petrolio iraniano (per l’80 per cento) è molto del gas che farebbe del paese una potenza energetica degli idrocarburi. Potenza che l’Iran non può esprimere non per la transizione energetica che trasformerà quelle risorse quasi in un peso, ma perché sottoposta a sanzioni statunitensi riattivate con l’uscita unilaterale di Washington dall’accordo sul nucleare Jcpoa.

Le stesse sanzioni, d’epoca trumpiana (mentre adesso l’amministrazione Biden lavora per la ricomposizione del Nuke Deal), che il presidente uscente Hassan Rouhani addita per le carenze idriche. Dice che non ci sono tecnologie a causa dell’embargo americano, ma dimentica i vari investimenti sbagliati in sbarramenti fluviali sul Del e il Karun. Opere guidate dai Pasdaran, così come al gruppo militare teocratico (stato nello stato) era affidata la gestione della sicurezza idrica. Ambiti in cui cercano spazi per sfruttarne gli interessi collegati.

La questione diventa oggetto di dinamiche politiche e sociali interne. “Lasciate la Siria e pensate a noi”, dicono i manifestanti del Khuzestan e parlano ai politici ma sopratutto alle Sepāh, che hanno diretto il coinvolgimento iraniano nella guerra civile siriana. Un modo per rafforzare l’influenza regionale, ma certamente una distrazione di sforzi e fondi che va avanti da dieci anni, con un paese la cui economia è in grave crisi.

Soldi spostati dai servizi che lo Stato iraniano potrebbe fornire ai cittadini, e quegli stessi cittadini quando protestano ne chiedono conto. Nei giorni scorsi la Guida Suprema Ali Khamenei aveva definito il suo cuore grondante sangue per il Libano, lo Yemen e l’Iraq, tutti paesi dove l’influenza iraniana attraverso il finanziamento delle milizie sciite locali è certamente cresciuta nel decennio.

“E chi pensa al Khuzestan?” si chiedevano i manifestanti. Davanti agli slogan e alla furia della popolazione (ci sono stati diversi feriti in scontri con le forze di sicurezza e perfino dei morti), Khamenei ha dovuto correggersi. Scivolone comunicativo da parte di chi della comunicazione (via definitiva della predicazione) ne fa un punto di forza. La Guida ha spiegato di avere a cuore i cittadini del Khuzestan, in realtà trattati come serie-B solitamente, e comprendere le loro necessità: non possiamo criticare il malcontento del popolo, “perché la questione dell’acqua non è cosa da poco, specialmente nel clima caldo del Khuzestan”.

Il clima è caldo in effetti. Nel Khuzestan vive una minoranza araba che ha manifestato anche istanze separatiste. Il timore di Khamenei, a cui si legano le dichiarazioni, è logico: se le proteste di chi disapprova le attività delle istituzioni della Repubblica islamica si sommano alle pretese separatiste la situazione rischia d’uscire dal controllo. La sommatoria di malcontento è complessa.

Anche per questo è stata chiusa Internet, metodo con cui il regime tarpa la potenziale diffusione delle proteste. Anche per questo si sta muovendo sia l’esercito che i Pasdaran così da contenere con la forza quanto sta accadendo (oggi, ad Ahvaz, città coinvolta dalle proteste, è atterrato il capo dei Pasdaran Hossein Salami). Come successo già nel 2019, i cittadini iraniani manifestano contro un governo che sembra troppo orientato su certi interessi rispetto al bene della collettività, e ormai la predicazione non basta a tenere cuori e menti in ordine.

I Pasdaran sono diventati una mafia, godono di interessi collegati alla costruzione dell’influenza regionale e al mantenimento del livello di ingaggio (con Israele, con gli Usa, con i Paesi Arabi). Le proteste in Khuzestan sono un’eredità velenosa che Rouhani lascia a Ebrahim Raisi, il conservatore che guiderà il paese per i prossimi anni dopo un successo elettorale a metà, segnato dall’astensione di una fetta dell’elettorato (la stessa porzione che manifesta in piazza contro il modus operandi della Repubblica islamica e non ha più fiducia in nessuna componente politica iraniana). Raisi ancora non è entrato in carica, quello che succede è un antipasto acido dell’inaugurazione.

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