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Che Giuseppe Conte sia costretto a fare la voce grossa per poi ripiegare, è un dato di fatto ed è facilmente spiegabile. Lo ha fatto con Beppe Grillo, minacciando dimissioni che non avrebbe potuto dare, e dalla partita è uscito abbastanza bene. Lo ha fatto nei giorni scorsi anche con Mario Draghi, ma dalla partita non potrà fare altro che fingere di non essere uscito male. E Draghi, che guarda all’obbiettivo, cioè il bene del suo governo e quindi del Paese, probabilmente gli farà da sponda.

Andiamo con ordine, e iniziamo dallo Statuto. Esso è abbastanza contraddittorio, e in sostanza sancisce la diarchia. Perché se è vero che l’interpretazione ultima dello stesso, in caso di discordie, è affidata al Garante, Conte ha avuto pienamente quell’agibilità politica che chiedeva. Perché Grillo gliela abbia data e con quale spirito, è possibile provarlo a immaginare. Dal primo punto di vista, è evidente che il presidente in pectore è l’unico “punto di caduta”, come ora si dice, di un movimento ormai balcanizzato: l’unico nome che mette d’accordo un po’ tutti non nel senso che li soddisfi, ma in quello che è il più accettabile rispetto ad ogni altro.

Quanto a Grillo, il ragionamento che ha fatto è probabilmente questo: se Conte riuscirà sarà un bene per tutti, e anche per me che non ho più la capacità e possibilità di un tempo di dare una spinta propulsiva; se fallisce, saranno stati i fatti e non io a farlo fuori. Proviamo. E poi tiriamo le somme. Un po’ come fanno i proprietari di azienda con certi Ceo rinomati: aspettano i risultati, ma li mettono in condizione di operare. Che la prova non sia facile per Conte, che però non ha altre alternative (essendosi dimostrata velleitaria quella del “partito personale”), è evidente: dovrà dare contentini, anche formali, un po’ a tutti e, nello stesso tempo, dovrà convincere gli elettori, almeno quelli residui; dovrà essere “liquido” all’interno e presentarsi comunque con un profilo delineato all’esterno. Dovrà soprattutto accontentare l’ala governativa e istituzionale del Movimento, che fa capo a a quelli che sono forse i veri uomini forti del partito (Luigi Di Maio e Roberto Fico); e nello stesso tempo non dovrà dimenticarsi di quella che guarda al passato governo e alle “realizzazioni” identitarie da esso ottenute.

Ora, far cadere Draghi, come qualcuno in questi giorni ha paventato, non solo alienerebbe a Conte l’appoggio dei governativi, favorendo quella scissione che si sta rocambolescamente evitando, ma alla fine non converrebbe nemmeno a lui che ha potuto sperimentare, negli anni dei suoi due governi, quanto conti e sia pesante la reputazione internazionale e come sia improbo affondare Draghi e mettersi contro mercati, Europa, governi esteri. Senza contare che gli italiani non capirebbero e né approverebbero.

Ai “passatisti”, chiamiamoli così, allo stato attuale Conte non potrà che dare contentini simbolici, e se ne facciano una ragione i Travaglio e i Bonafede. Draghi gli darà una mano, ma d’altronde già l’ex “avvocato del popolo” lo ha indirizzato. Mettere anche il “reddito di cittadinanza” nella partita delle richieste, e poi chiedere garanzia sulla non presenza nel più urgente decreto sulla giustizia di “soglie di impunità”, permette ora al presidente del Consiglio in carica di prendere tempo sul primo (dando casomai qualche vaga assicurazione di welfare: “reddito di cittadinanza” può significare tante cose e molte di esse possono essere presentate come “migliorative” dell’esistente) e dare assicurazioni sul secondo.

Il tutto, fra l’altro, entro un periodo di tempo breve, precedente alla “consacrazione” in rete del richiedente. Una notazione personale a margine: non so quanto siano estese oggi in Italia le sacche di impunità, ma la domanda da porsi ad un liberale sembra un’altra: chi pensa alla “punizione a vita” di tanti innocenti finiti nelle maglie della giustizia? Ecco, la differenza fra una civiltà liberale del diritto e una che non lo è passa tutta da qui.

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