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La prima tappa del nostro viaggio verso il nord per scoprire il significato di viaggio in un mondo senza turismo è terminata, siamo riusciti ad arrivare in auto a Kjerringoy (Nordland, Norvegia) dopo 4101 km (di cui 1000 su strade bianche), 18 bidoni di caffè, 10 ore di traghetto, 5 bottiglie di Barbera e 4 tamponi negativi collezionando solo un respingimento, quello alla dogana svedese. Ci è stato chiesto il perché lo facciamo e la risposta è sempre e solo una: amore per le barche, il mare, i viaggi e le storie da raccontare. Ecco un piccolo recap.

8 marzo, dall’Italia al confine danese: tutto fila liscio come una autobahn, dalla coda dei frontalieri a Como il mattino, al tramonto tra le gru del porto di Amburgo, all’omerica cena greca tassativamente take away in una Germania che, come l’Italia, fatica ad abituarsi a vivere senza certezze. L’aroma di uno tzatziki carico come il gas mostarda resterà in auto per lustri.

9 marzo, dal confine danese al Mar del Nord. Una teutonica organizzazione ci tampona nel parcheggio di un centro commerciale sotto un sole primaverile, e poscia voliamo verso la Svezia dove, con la scusa di non importare virus nel paese che sul tema ne ha fatte davvero di ogni, troviamo un confine blindato e sprezzo per la mascherina. Respinti senza passare dal via, proviamo a sfidare il navigatore per acciuffare uno dei rarissimi traghetti che ancora viaggiano verso la Norvegia, prendendolo per il rotto della cuffia, e sveniamo in una piccola cabina dalle lenzuola candide nell’ansia di venire, di nuovo, respinti al confine norreno.

10 marzo, da Stavanger a nord di Lillehammer. Con estrema gentilezza e senza scendere dall’auto veniamo smistati tra 4 poliziotti, una organizzatrice e due infermiere, e ci danno il benvenuto in Norvegia. È l’alba, è bellissimo, non ci sembra vero. Abbiamo ancora duemila chilometri di strada davanti a noi e il tempo peggiora. Il tempo di passare Lillehammer e ricordare le imprese del grillo DeZolt, e la strada per il nord si chiude, quindi scivoliamo, letteralmente, verso il mare, sperando di arrivarci in una tormenta di neve che gela le strade e ribalta i camion.

11 marzo, da Lillehammer a Mosjoen. La tempesta prosegue per tutto il giorno successivo e procediamo a rilento su strade e traghetti di ogni tipo, sempre accompagnati da folate di zucchero a velo che precipitano dalle montagne. Siamo probabilmente l’unica auto senza ramponi che spuntano dalle gomme, e si vede. Siamo forse anche l’unica auto, punto, ci sentiamo come clandestini in un convoy ordinato di autoarticolati che procedono a 90 all’ora come non ci fosse un domani, sempre e comunque, comete massicce di fronte a una nuvola bianca. Passi ancora chiusi, diamo il colpo definitivo all’arcobaleno aromatico della macchina con un take away indiano.

12 marzo, da Mosjoen alla barca. Il Saltfjellet apre alle 7 e lo attraversiamo alle 10 e 10, una striscia nera e gialla in un nulla bianco che sventola strali di neve sull’asfalto, a correre poco più lenti dell’auto. Qualche renna, camion, neve. Come all’improvviso la strada scende al mare, si preannuncia la città, panorami conosciuti, ultimo traghetto, ed ecco la barca, lì sotto la neve. Siamo arrivati.

Chissà se e quando i nostri amici potranno raggiungerci.

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