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La Cina comunista ha trovato negli ultimi dieci anni un terreno fertile per la sua presenza geopolitica nei Balcani. Nella regione della ex Jugoslavia, Pechino ha investito circa 13 miliardi di euro e può contare su un interscambio commerciale di 110 miliardi nell’intera Europa centrale.

I Balcani insieme all’Europa centrale sono il ventre molle del vecchio continente, ovvero del sistema nordatlantico. La loro frammentazione, aumentata esponenzialmente negli ultimi cento anni col venir meno dell’impero asburgico ed ottomano, ne fa il naturale luogo di scontro ed incontro di tutte le faglie geopolitiche.

È attraverso i Balcani che le forze antagoniste del sistema Occidentale, potendone facilmente sfruttare le storiche tensioni, tentano di portare la destabilizzazione nel nostro sistema. Per tale ragione il regime comunista di Pechino ha lanciato nel 2012 a Varsavia l’Iniziativa di Cooperazione tra Cina e i Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, meglio nota come l’Iniziativa 17+1.

Essendo lo spazio economico dell’Unione europea, con i suoi vincoli legali, un osso spesso troppo duro per la penetrazione di un sistema economico centralizzato e statalista Pechino ha ricalibrato la propria strategia sul limes esterno dell’Unione.

La prospettiva di poter entrare con accettabile ritardo in zona comunitaria sull’onda del processo di allargamento e standard legali ed ambientali assai più rilassati hanno convinto la Cina a puntare sui Balcani occidentali, e in particolare sulla Serbia, per il consolidamento della propria presenza, nonostante in termini assoluti di mercato la zona sia quasi insignificante per il gigante economico asiatico.

A Belgrado il regime cinese ha portato investimenti nelle autostrade, nelle ferrovie e nell’industria pesante per oltre dieci miliardi. Grazie all’acquisizione dell’acciaieria di Smederevo, la Cina ha superato la Fiat, proprietaria degli insediamenti di Kragujevac, quale primo esportatore del Paese.

In Bosnia Erzegovina, Macedonia e Kosovo la propaganda a utilizzare sostegni finanziari garantiti da prestiti sovrani cinesi si è andata intensificando nell’ultimo quinquennio mentre in Montenegro, il prestito di un miliardo di euro a favore dello sviluppo autostradale è già divenuto un caso europeo dopo che il governo locale ha chiesto aiuto a Bruxelles per non cadere nella spirale del debito ed evitare il pignoramento di Pechino.

Il crollo del 15% del Pil nazionale nel 2020, la scarsa resa del progetto infrastrutturale e la modestia di un mercato formato da soli 600.000 abitanti fanno del Montenegro, membro della Nato dal 2017, un obiettivo strategico naturale per la Cina.

Tuttavia, se sul breve periodo la presenza cinese nei Balcani rappresenta un rischio, essa non rappresenta un pericolo sul lungo periodo.

Innanzitutto, in seguito all’acquisto del porto del Pireo, avvenuto durante la crisi finanziaria della Grecia con la speranza di creare una piattaforma di lancio della propria espansione, a Pechino hanno scoperto di essere comunque isolati dal resto dell’Europa centrale non essendo lo scalo infrastrutturalmente collegato col cuore del continente.

Col caso del Montenegro la Cina potrebbe incominciare a comprendere che la sua politica di finanziamenti sovrani, con cui vorrebbe asservire i Paesi più deboli del mondo, le si potrebbe rivoltare contro qualora questi si rifiutassero in massa, sostenuti dall’Occidente, di ripagare il dovuto. Ed infine, a Pechino non hanno compreso di essere solo un partner di comodo, di cui liberarsi all’ottenimento dei risultati sperati.

I Paesi della regione, eredi della brillante tradizione dei “Non Allineati”, sono degli esperti nel servirsi degli interessi delle potenze globali per moltiplicare il proprio peso geopolitico. Mostrare vicinanza a Pechino non è altro che un modo per innalzare le richieste nei confronti di Bruxelles e Washington che rimangono di gran lunga i partner economici e politici più importanti della ragione.

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