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All’indomani della caduta del Muro, l’Europa visse una stagione euforica: moneta unica, allargamento a Paesi dell’ex Patto di Varsavia, consolidamento di un modello economico e sociale che prometteva sicurezza e prosperità come nessun’altra parte del mondo. La fine della Guerra fredda e il crollo dell’Unione Sovietica risuscitarono il sogno di un’Europa dall’Atlantico agli Urali e avviarono processi democratici e partnership per la pace anche con la Russia.

Oggi – trentacinquesimo anniversario – dobbiamo amaramente constatare che euforia e speranze sono state cancellate per almeno una generazione. E la Germania è lo specchio in cui si riflettono la crisi dell’Europa, il passaggio dalla globalizzazione alla “confusione globale”, la crescita esponenziale – in Ue e negli Usa – di movimenti populisti e xenofobi che mettono in crisi il gioco democratico e forniscono un formidabile potenziale di influenza decisionale a regimi e dittature.

Puntualmente, a ogni anniversario, si riflette sulla “riunificazione incompiuta”, su quanto resti ancora da fare per unire i tedeschi e frenare l’ondata di estrema destra che sale dai Land orientali. Ma oggi la questione della riunificazione è solo la parte per il tutto: la Germania è entrata in una profonda crisi economica, produttiva, di leadership, d’identità e di ruolo strategico in Europa e nel mondo, avendo subito più di ogni altro Paese europeo i contraccolpi commerciali ed energetici della rottura con la Russia.

Inoltre la crisi tedesca si snoda parallelamente alla crisi francese, che è innanzitutto politica e di sistema dopo le sconfitte in serie accumulate dal presidente Emmanuel Macron. Oggi il premier Michel Barnier è praticamente tenuto in piedi dal Rassemblement national di Marine Le Pen. E questa non è una buona notizia per un’Europa che avrebbe bisogno di maggiore coesione e integrazione e che vede in crisi le “colonne del tempio”, l’asse Parigi-Berlino, peraltro litigioso come mai prima d’ora.

La storia definirà in un futuro prossimo i nuovi equilibri mondiali, ma è un fatto che le cose sono cambiate. In peggio. Abbiamo raccontato la fine della Guerra fredda, le speranze della globalizzazione, l’iper potenza americana, lo scontro di civiltà e ora una rivalità fra alleanze complesse e sistemi in crisi – la Nato, i Brics, l’asse filorusso, l’Ue – che poco assomiglia all’ideale del multilateralismo. Nel grande gioco geostrategico (si pensi soprattutto alle rotte commerciali e ai corridoi energetici) stanno cambiando le regole.

Nuovi e forti protagonisti pretendono di giocare la partita ad armi pari. Anche il dollaro rischia di farne le spese, se si concretizzerà l’alleanza dei Brics alternativa alla moneta americana e in competizione con essa. Le due più gravi crisi mondiali – la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio Oriente – sono appese a due narrazioni parallele e al nuovo inquilino della Casa Bianca. La prima narrazione è quella che i governi occidentali (o almeno la maggioranza, pur con qualche riserva) raccontano alle rispettive opinioni pubbliche, ossia che l’Ucraina possa vincere la guerra o quantomeno non perderla. Di qui la continuità degli aiuti, il sostegno politico, le promesse ancora vaghe di possibile adesione alla Nato e all’Ue. Tutto al prezzo di decine di migliaia di morti, milioni di sfollati e enormi distruzioni per un tempo indefinito che si riverbererà sempre più sulla dimensione politica, militare ed economica dell’Europa.

La seconda narrazione è che dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato dai terroristi di Hamas, Israele abbia il diritto di vendicarsi a 360 gradi, da Gaza al Libano, dall’Iran alla Siria. Con qualsiasi mezzo, a prescindere dalla morte di migliaia di innocenti, soprattutto bambini. Ma la critica all’azione di Israele è spesso assimilata a un crescente antisemitismo che percorre le piazze d’Europa e che accentua la frattura sociale fra migranti (per lo più di religione musulmana) e nativi.

L’Europa a ventisette si rivelò una magnifica architettura ideale, ma si scoprì debole e impreparata di fronte alle drammatiche emergenze del nuovo secolo. Soltanto la volontà e la determinazione di alcuni leader – Mario Draghi, Emmanuel Macron e Angela Merkel – riuscirono ad arginare i rischi di implosione, ma non a scongiurare una profonda crisi di governance. La guerra in Ucraina ha reciso i legami culturali ed economici con la Russia. La Nato si è allargata ai Paesi baltici e scandinavi.

Nonostante la condanna dei massacri e della politica aggressiva del Cremlino, cade nel vuoto il monito di Henry Kissinger se sia nell’interesse dell’Europa ridurre la Russia a Paese paria, tanto più che le democrazie occidentali restano minoritarie nel pianeta, sia come sistema politico, sia come peso specifico di abitanti. L’allargamento della Nato ai Paesi baltici e a nuovi membri a est sposta in quella direzione anche il baricentro del vecchio continente.

Una nuova “cortina di ferro” si profila a est, disegnando una rinnovata frattura e una confrontazione permanente. Forse un nuovo equilibrio della paura. Intanto la guerra ricorda sempre più un grottesco gioco dell’oca che ne dimostra la sua insensatezza: fra Kiev che non può perdere e Mosca che non può vincere si delinea uno scenario “siriano”, lo status quo armato, come in “niente di nuovo sul fronte occidentale”, il romanzo-verità della grande guerra nel cuore dell’Europa che oggi sembra riscritto.

Formiche 207

Ucraina e Medio Oriente sono appese a due narrazioni (e a Trump). Scrive Nava

Di Massimo Nava

La storia definirà in un futuro prossimo i nuovi equilibri mondiali, ma è un fatto che nel grande gioco geostrategico stanno cambiando le regole. Abbiamo raccontato la fine della Guerra fredda, le speranze della globalizzazione, l’iper potenza americana, lo scontro di civiltà e ora una rivalità fra alleanze complesse e sistemi in crisi – la Nato, i Brics, l’asse filorusso, l’Ue – che poco assomiglia all’ideale del multilateralismo. L’analisi di Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera e scrittore

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