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Per Romano Prodi, il leader della Lega Matteo Salvini si è “bertinottizzato”. Nel senso che perde consensi e dunque radicalizza le sue posizioni. Omettendo di dire che su quella strada Bertinotti alla fine è sparito e Rifondazione si è dissolta. Giorgia Meloni assicura che quando lei e Salvini si incontreranno per le candidature amministrative “sicuramente troveremo un accordo”, anche con Forza Italia. Già: campa cavallo.

Intanto non c’è giorno che passa che il fossato tra il Carroccio e FdI non si allarghi: quando e se diventasse una voragine, colmarla non sarà così semplice. Pd e LeU, anche loro un giorno sì e l’altro pure, avvertono il Capitano (e Draghi, sul quale fanno pressing) che Salvini non può essere di lotta e di governo: scelga una buona volta da che parte stare e non se ne parli più. Omettendo, anche qui, di dire che se il capo leghista scende dalla nave di SuperMario la formula Ursula che dovrebbe prendere il posto delle larghe intese è più complicata da realizzare di quanto sembri e il governo, sempre che Draghi accettasse di continuare a guidarlo, sarebbe comunque più debole, mentre andare alle elezioni comporterebbe il prezzo di distruggere il lavoro di Draghi e rimettere l’Italia su un sentiero di simil-default.

È solo un piccolo florilegio di affermazioni per verificare che di dritto o di rovescio Salvini resta al centro del dibattito politico. La sua decisione di sostenere Draghi ha provocato scossoni profondi: non è ancora così divisivo al punto da diventare emulo di Silvio Berlusconi che provocò il bipolarismo “o con me o contro” che è durato vent’anni, ma rimane certamente il bersaglio preferito sia di chi lo ama, sia di chi lavora per segare il ramo “governista” su cui si è sistemato. Nel frattempo lui, Salvini, scrive al Corriere per affermare che non è vero che la ribellione sul decreto chiusure e sul coprifuoco sia stata un’impennata solitaria: assieme a lui c’erano semplicemente tutte le regioni, di qualunque colore e orientamento.

Insomma a destra è in onda il film “coalizione cercasi”. Film strano e complicato. Per ora siamo a meno di un terzo della trama: il finale ancora lo devono scrivere. Perché la divaricazione è forte e, come detto, non semplice da recuperare. I sondaggi segnalano la crescita continua di Fratelli d’Italia mentre un fenomeno opposto succede alla Lega. Dunque la voce grossa di Salvini sarebbe una voce di paura, non di coraggio. È una lettura che coglie certamente un nucleo di verità, ma che finisce per essere superficiale.

È alimentata dal fantasma del Papeete che aleggia su Salvini come un avvoltoio in cerca di preda, pronto a piombarle addosso non appena mostri cenni di sfinimento. È un pezzo di verità, forse: ma non tutta la verità. Salvini è al governo perché l’elettorato leghista non può accettare uno scontro con l’Europa e ancor meno immaginare di restare fuori dalla spartizione dell’immensa torta che è rappresentata dal Recovery plan e annesso Pnrr.

Se oggi il leader leghista decidesse di uscire dalla maggioranza farebbe il più grande regalo a Meloni che potrebbe dire: visto, avevo ragione io fin dall’inizio, e dimostrerebbe (ancora una volta?) di non essere affidabile. Appunto: come Bertinotti. Non foss’altro che per questo, è difficile che ne ricalchi le orme. Se Salvini abbandonasse Draghi con un simile fardello sulle spalle è difficile credere che recupererebbe consensi, magari ne perderebbe di più, chi lo sa. In ogni caso sarebbe un azzardo: meglio affrontare la scommessa del governo dove ha più carte da giocare e alcune sono di pregio. Non a caso Salvini ha spiegato che cacciarlo fuori dalla strana e larga maggioranza “è l’obiettivo della sinistra, possono scordarselo”.

Dunque è presumibile che l’ex ministro degli Interni (a proposito: se l’orribile, inumana e ingiustificabile strage in mare di ieri fosse successa con i gialloverdi al governo, come sarebbe finita?) rimanga al governo a fare il cane da guardia degli interessi della Lega. Che sono anche e soprattutto i suoi. Salvini ha portato la Lega dal 4 al 34 per cento dei voti salvo poi scendere di dieci e più punti. Finché rimane il primo partito è intoccabile, lo sanno tutti nel Carroccio a cominciare da Giorgetti.

Però è vero che il sentiero scelto è tortuoso e pieno di insidie. Per percorrerlo con successo servono doti da statista. Forse è questa la vera scommessa, il Rubicone che il Capitano deve attraversare. Se lo guata, diventa Comandante in capo. Se nella traversata inciampa e affonda, i sogni di gloria sono destinati a svanire come rugiada al mattino.

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Se oggi il leghista decidesse di uscire dalla maggioranza farebbe il più grande regalo a Meloni che potrebbe dire: visto, avevo ragione io fin dall’inizio, e dimostrerebbe (ancora una volta?) di non essere affidabile. Inoltre è difficile credere che recupererebbe consensi, magari ne perderebbe di più. Salvini ha portato la Lega dal 4 al 34% salvo poi scendere di dieci e più punti. Ma sarà intoccabile finché…

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