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Non più capo del governo, non ancora capopartito, mai più capopopolo. L’effigie politica di Giuseppe Conte è in divenire, abbozzata ma non strutturata. C’è chi con una certa dose di ingenerosità ha criticato il suo primo discorso rivolto al M5S. La realtà è che in quella circostanza sono state più importanti le cose dette che quelle taciute. A partire dall’addio al linguaggio violento e volutamente destrutturante di un sistema: il Vaffa non abita né abiterà più nei Cinquestelle.

Per continuare sulla prospettiva di sotterrare definitivamente il velleitarismo della palingenesi e l’annessa attrezzatura con apriscatole: nella nuova veste il MoVimento sarà puntello della democrazia rappresentativa e dei suoi istituti lasciando in essere il tentativo di coniugare questa esigenza con quella di non rescindere in qualche misura i legami con meccanismi di democrazia digitale di massa. Già solo questi due sono obiettivi che se raggiunti testimonierebbero del successo dell’ex avvocato del popolo.

Tuttavia è impossibile tacere delle difficoltà del tentativo. La principale delle quali è insita nel personaggio stesso di Conte, nella sua struttura di leadership in costruzione. Il professore di Diritto è partito dal tetto, si è insediato in cima al podio senza avere alle spalle una gavetta politica di un qualche spessore. Messo a Palazzo Chigi per “eseguire” il programma di governo stilato da Di Maio e Salvini, si è dimostrato abilissimo nel rovesciare la sua condizione indossando i panni del protagonista al posto di quelli da comprimario. Vero è però che fare il presidente del Consiglio conferisce uno status privilegiato e proietta una dimensione mediatica di grande effetto. Soprattutto, ed è ovvio, conferisce potere: elemento decisivo in qualunque trattativa e in particolare quando il quadro politico si divarica. Lo dimostra il fatto che Conte abbia potuto tutto sommato tranquillamente guidare due maggioranza opposte rimanendo al suo posto.

Ma il potere di capo del governo si tramuta da oro in ferro quando si diventa capo di un partito. Una volta, nella Prima Repubblica, il leader di un partito di maggioranza era il detentore, in tutto o in parte, dello scettro della governabilità. Oggi, qualunque numerazione si voglia appioppare alle istituzioni del terzo millennio, le cose stanno all’opposto. I partiti hanno perso spessore, identità e credibilità: le postazioni governative ne hanno acquisito di conseguenza.

Da capo del governo a capo di partito il passo è enorme. Avere nel carniere una fondamentale capacità di indirizzo, impugnare senza competitor possibili il bastone della mediazione tra partner della coalizione sapendo tuttavia che l’ultima parola è la tua, è assai diverso dal doversi destreggiare tra personalità, ambizioni, esigenze, divaricazioni correntizie e possibili sgambetti che la gestione di un partito inevitabilmente comporta. Si dirà: i Cinquestelle sono allo sbando, Beppe Grillo ha “precettato” Conte perché è al momento l’unico in grado di dare un senso di marcia e un profilo di autorevolezza ad un magma nato per conquistare il mondo (politico) e via via ridottosi di consensi e capacità d’azione.

Vero. Però queste condizioni sono sì favorevoli ma al tempo stesso celano insidie e minano il cammino. Conte non può essere capopopolo, non può usare l’arma della demagogia che il Garante e la primitiva classe dirigente grillina hanno sparso a piene mani. E non può più avvalersi del ruolo di premier che così tanto ha funzionato nei mesi scorsi. Da capo del governo, Conte poté tranquillamente definirsi populista senza scalfire di un millimetro la sua immagine pubblica o la sua potenzialità politico-istituzionale. Ma oggi sarebbe lo stesso?

Essere il rifondatore del MoVimento conferisce senz’altro a Conte una agibilità e una presenza insieme concreta e magari insperata. Ma non c’è dubbio che il capo politico dei Cinquestelle è una dimensione difficile da gestire: per chiarimenti si può chiedere all’attuale ministro degli Esteri. A voler essere maliziosi, la nuova avventura di Conte parte da un obbligato ridimensionamento: da numero uno assoluto a uno dei tanti leader in campo. È (o sarà) il numero uno della forza politica tuttora maggioritaria in Parlamento: non è poco. Ma, appunto, da capo del governo a capo di un partito il passo è grande. Assomiglia al passo del gambero.

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