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Deve essere difficile assai la vita sotto Draghi per i partiti italiani: in pratica non toccano palla. E sono subito rintuzzati se solo provano ad allargarsi, come ieri è accaduto a un incauto Enrico Letta (che in verità dà sempre più l’impressione non solo di non toccare palla ma di essere anche nel pallone). Il segretario Pd ha proposto una sorta di tassa di successione, o patrimoniale, pro giovani, ricevendo la risposta di Draghi, che non si è minimamente scomposto, pochi minuti dopo: “Questo è il momento di dare, non prendere!”. E l’ipotesi è stata ammazzata in culla, come suol dirsi!

È chiaro allora che la vera partita Draghi se la gioca non con i partiti ma in Europa, ove deve far valere tutto il peso e l’autorevolezza che ha acquistato negli anni per far correggere il giudizio che i Paesi che contano hanno su di noi. E da cui sono scaturite politiche sinceramente penalizzanti per il nostro Paese, che per incapacità o irrilevanza nel subirle non ha quasi mai battuto ciglio. La prima conseguenza è che così Draghi ha ormai rotto l’asse su cui si era giocata la partita nella prima parte della legislatura, cioè quello dell’opposizione fra “sovranisti” ed “europeisti” (in qualche modo il premier è entrambe le cose), imponendo indirettamente ai partiti di riformularsi. Richiesta a cui la Lega di Salvni, con qualche contraddizione e una certa irruenza, con la coloritura “liberale” che per molti aspetti va assumendo, risponde oggi molto meglio della parte avversa che un’identità nuova fatica anche con Letta a trovarla.

Se così stanno le cose, è gioco forza pensare che la questione dell’immigrazione, che non può considerarsi una semplice fisima di Salvini ma è per l’Italia, almeno da un decennio, anche per questioni geografiche, la vera emergenza, è quella ove Draghi dovrà impegnarsi più a fondo e anche più rapidamente in Europa, visto che sembra esserci ormai una vera escalation degli sbarchi, destinati ad aumentare sensibilmente nelle prossime settimane. Intanto, già nel vertice europeo di lunedì e martedì prossimi a Bruxelles, la questione, da tempo accantonata, è stata rimessa all’ordine del giorno.

Per Draghi è indubbiamente una vittoria, per il momento solo simbolica, visto che, come lui stesso ha fatto presente, un accordo fra i Paesi europei non c’è e non potrà essere certo trovato in pochi giorni. E non sarà facile per il “sovranista” Draghi far capire che, non essendoci ancora l’Europa federale che egli da “europeista” sogna, anche l’Italia ha diritto alla quota di sovranità che gli altri si sono già presi su questo tema. Ovvero, lì dove conta (ancora) la forza degli Stati, l’interesse nazionale italiano non può essere sistematicamente calpestato dai Paesi che più che sono portati a favorire il proprio. E a ingraziarsi un’opinione pubblica interna, generalmente poco disposta verso i nuovi immigrati.

Non sarà facile. E non si può essere acriticamente ottimisti sul buon esito del compito che attende il premier. Certo è che però, se l’Italia non ci riesce oggi con Draghi al timone, è difficile pensare che possa mai più in futuro riuscirci.

I partiti non toccano palla e Draghi gioca in Europa. La bussola di Ocone

La vera partita Draghi se la gioca non con i partiti ma in Europa, ove deve far valere tutto il peso e l’autorevolezza che ha acquistato negli anni per far correggere il giudizio che i Paesi che contano hanno su di noi. E da cui sono scaturite politiche sinceramente penalizzanti per il nostro Paese, che per incapacità o irrilevanza nel subirle non ha quasi mai battuto ciglio. La bussola di Corrado Ocone

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