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Qualche settimana fa Eric Schmidt, ex presidente esecutivo di Alphabet/Google e ora investitore impegnato a sostenere iniziative imprenditoriali prevalentemente nel campo della tecnologia applicata alla sicurezza, ha pubblicato un paper in cui traspone le categorie della deterrenza nucleare ai data centers. Dalla teoria della Mutually assured destruction (Mad), elaborata soprattutto dal Dopoguerra in poi e posta alla base dell’equilibrio tra le grandi potenze, viene così derivato il nuovo paradigma Maim (Mutually assured AI malfunction), che equipara l’attacco nucleare a un atto di sabotaggio dei data centers. Per il resto, il game tra attaccante e attaccato esibisce la stessa dinamica sia nell’uno che nell’altro schema concettuale, con la conseguenza che il primo attacco viene disincentivato dal fatto che l’esito finale porta alla totale distruzione di entrambi i giocatori.

I data center che Schmidt ha in mente sono, naturalmente, quelli che ospitano i grandi sistemi di intelligenza artificiale, prerogativa di pochi attori globali sul piano dello sviluppo sia dei language models che dell’infrastruttura, e che rappresentano il fattore dirompente in grado di portare alla radicale ridefinizione degli equilibri di potenza planetari per il fatto di rendere già ora obsolete le piattaforme su cui si basano gli apparati di difesa attualmente in uso. Nelle parole di Palmer Luckey, eccentrico fondatore di Anduril, pronunciate nel corso di una recente intervista a 60 Minutes, gli Stati Uniti rischiano di rimanere senza munizioni dopo soli otto giorni nel caso di una guerra con la Cina che scoppiasse oggi; se poi il conflitto viene esteso anche a Russia e Iran in simultanea, lo scenario è ovviamente ancora più negativo. Servono quindi nuovi, rivoluzionari sistemi d’arma guidati dall’Ai e, a monte, nuovi modelli teorici.

Sul legame tra data center e sicurezza si sono poi espressi sia Dario Amodei, fondatore di Anthropic, il quale, conversando con Michael Froman del Council of foreign relations, sottolinea la necessità di dislocare i data centers strategici o negli Stati Uniti o in Paesi di provata fede atlantica; sia Steve Bannon, già consigliere per le strategie durante il primo mandato Trump, che ha evocato il rischio di azioni militari aventi come obiettivo proprio i data center nel corso di un dibattito con Edward Luce del Financial Times.

Quanto delineato finora rimane confinato ai rapporti tra un numero ristretto di grandi potenze? Chi è estraneo a tali dinamiche, anche solo sul piano della scala degli investimenti richiesti, se ne deve perciò disinteressare? Fermo restando che la comprensione della genesi di certi equilibri è imprescindibile anche da parte di chi non contribuisce a determinarli, la risposta non può che essere negativa.

A ben vedere, mentre dall’infrastruttura nucleare possono originare sia un sistema d’arma che una fonte di energia, l’ecosistema dei data centers, dal canto suo, oltre a essere (avido) consumatore e non produttore netto di energia, tende a racchiudere in sé porzioni sempre crescenti della vita sociale, civile ed economica di un Paese, tanto da porsi spesso in rapporto di interdipendenza con le altre infrastrutture critiche, in primis quella energetica.

Così, l’accelerazione vorticosa subita negli ultimi anni dai processi di digitalizzazione fa sì che le esigenze di sicurezza – da intendersi sia nel senso della prevenzione di attacchi all’infrastruttura fisica che in quello, più generale, indicato da Amodei – occupino una parte ormai preponderante della pianificazione da parte di chi deve effettuare un investimento così come di chi deve predisporre strategie a livello governativo e regolatorio, in un approccio che non può non essere multidimensionale pena il cadere vittima di una fuorviante settorialità.

Ridefinizione di equilibri, si diceva. I Paesi in grado di garantire la fornitura di risorse sia economiche sia fisiche allo sviluppo domestico di data centers di dimensioni consistenti al servizio dei grandi sistemi di intelligenza artificiale stanno rapidamente maturando la consapevolezza che il proprio peso strategico e la propria capacità di proiettare influenza vengono potenziati a mano a mano che tali programmi di investimento trovano attuazione.

Così, Stati del Golfo quali l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti, in cima alla graduatoria mondiale dei soggetti erogatori di finanza in questo ambito, sembrano voler riconsiderare per ciò stesso vecchie architetture di sicurezza che vedono Israele sostituire gli Stati Uniti come maggior security provider dell’area in ragione della propria superiore capacità militare e, soprattutto, tecnologica. Se gli hyperscaler si trovano nel nostro territorio – questo il loro ragionamento – il ribilanciamento tecnologico a nostro favore è ormai un fatto compiuto così come la nostra (quasi) autonomia in fatto di sicurezza, evenienza inconcepibile prima dell’avvento dell’intelligenza artificiale applicata alla difesa.

Allo stesso modo, colpisce come nell’analisi di Schmidt la Russia, a dispetto del suo status, non venga nemmeno menzionata, lasciando alla Cina il ruolo di unico concorrente diretto degli Stati Uniti in questo campo. Si tratta dell’impossibilità concettuale di concepire Mad/Maim come uno schema a tre attori oppure davvero la Russia deve rinunciare a pensarsi come potenza alla luce dei nuovi paradigmi? In questo secondo caso, ci si dovrà aspettare una corsa frenetica, probabilmente già iniziata, volta a colmare questo gap da parte di Mosca: perdere terreno in questo frangente, esattamente come agli albori dell’era nucleare, può compromettere il posizionamento strategico dei prossimi decenni.

E l’Italia? Ragioni di ordine economico, regolatorio e infrastrutturale probabilmente impediscono al nostro Paese di intercettare i grandi flussi di investimento che alimentano lo sviluppo sopra descritto; tuttavia, per la prima volta nella sua storia, Roma ha davanti a sé l’occasione di sovvertire i tradizionali rapporti di dipendenza in particolare con i Paesi del sud del Mediterraneo che da tempo immemore garantiscono l’approvvigionamento di risorse naturali alla Penisola. Ad essi sembra essere precluso, per ovvi motivi di sicurezza, lo sviluppo di un proprio ecosistema di data centers: se essa sarà in grado di pensare in modo strategico, di prodursi in uno sforzo corale con tutti gli attori coinvolti e di superare i limiti che troppo spesso ne restringono il raggio d’azione, è all’Italia che potranno guardare per affrontare le sfide imposte dai nuovi paradigmi.

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