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Istat e Censis in coro ci hanno parlato in questi giorni della fatica del ceto medio. Che non vede futuro, perde terreno in termini di ricchezza e spera che i figli trovino fortuna all’estero. L’ennesima conferma della legge dei differenziali salariali di competenza (skill wage differentials) che in ogni Paese del mondo è un meccanismo che genera diseguaglianze crescenti.

Come insegna ormai da tempo la letteratura economica il progresso tecnologico che accelera, combinato con l’internazionalizzazione degli scambi e delle filiere produttive (che prospera e sopravvive modificandosi anche agli scossoni di Trump), accresce il benessere ma aumenta le distanze tra chi è in cima e chi è in fondo alla scala delle competenze assottigliando la presenza di chi si trova al centro. E, come ormai sappiamo bene, le diseguaglianze alimentano populismi e complottismi e riducono la fiducia nelle istituzioni.

Non ci sono ricette magiche e vale la pena ancora una volta arrovellarsi sulle risposte di policy ad un problema strutturale e difficilissimo da risolvere, che nel nostro Paese si aggrava per la stagnazione dei salari reali ed una minore capacità di offrire prospettive di carriera ai più giovani. Paghiamo dal primo punto di vista una struttura produttiva fatta prevalentemente di piccole e medie imprese che si trovano in condizioni di subordinazione nelle filiere del prodotto e una specializzazione produttiva con un peso rilevante in servizi a bassa produttività.

Quello che potremmo e dovremmo fare è un mix tra interventi macro e investimenti su capitale umano e sociale. Nella lotta alla povertà è ideologico e inutile contrapporsi tra chi è a favore e chi è contro il reddito di cittadinanza. Le misure di contrasto esistono e cambiano (il reddito di cittadinanza c’è ancora ma ha cambiato forma) e vanno trovate le risposte migliori.

Quella ideale proposta con il collega Cozzi è un reddito di partecipazione e formazione che la Banca Centrale Europea potrebbe erogare a chi è sotto soglia di povertà (con riserva obbligatoria al 100%) condizionato ad incontri frequenti con assistenti social ed enti di terzo settore per profilazione, indirizzo in direzioni socialmente utili o produttive e scrematura dei falsi bisognosi. La transizione deve accelerare perché ha il potenziale di abbassare i costi delle bollette di famiglie e imprese e di metterci al riparo dai rischi di nuove ondate inflazionistiche.

Ma se vogliamo andare più in profondità dobbiamo riconoscere che alla base del successo sociale ed economico ci sono intelligenza emotiva, intelligenza relazionale e spirito contributivo anziché estrattivo (cosa posso fare per il mio territorio e la mia comunità e non cosa posso estrarre come rendita dal pubblico), variabili oggi identificabili e misurabili con i progressi delle scienze sociali. Lavorare su questi fondamentali è possibile ed è la vera radice della ricchezza (spirituale, sociale, economica) delle nazioni.

La fatica del ceto medio e la vera ricchezza delle nazioni. La lettura di Becchetti

Se si vuole salvare il ceto medio, serve un mix tra interventi macro e investimenti su capitale umano e sociale. Nella lotta alla povertà è d’altronde ideologico e inutile contrapporsi tra chi è a favore e chi è contro il reddito di cittadinanza. Le misure di contrasto esistono e cambiano e per questo vanno trovate le risposte migliori. Il commento di Leonardo Becchetti

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