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Le polemiche, ancora in corso, sulla presenza femminile troppo esigua nella compagine del Governo Draghi hanno attraversato il Partito democratico, che di quella esiguità è il principale responsabile.

Colpisce la scelta di non indicare nessuna donna nella sua rappresentanza e colpiscono, ancor di più, le motivazioni addotte che si sono tradotte nel più classico degli scaricabarile. Ciò in cui si nota minor attenzione è l’individuazione delle cause alla base di tale dinamica.

Il Partito democratico è stato, fin dai suoi albori, l’organizzazione politica che più di ogni altra ha fatto della parità di genere la propria cifra identitaria. Sia per la scelta degli organismi dirigenti che per la rappresentanza ai vari livelli istituzionali, è stata la forza che più di ogni altra si è spesa per introdurre correttivi che consentissero una sempre maggiore partecipazione e presenza delle donne.

Nel momento delle scelte significative ha disperso questo enorme patrimonio. Come è stato possibile? Io credo che lo sia stato per due ragioni, connesse e interdipendenti.

La prima di carattere emergenziale, che riguarda il Paese, la seconda più profonda, che riguarda la genesi e la storia recente del Partito democratico. A più riprese abbiamo registrato la scontata previsione che l’impatto della crisi pandemica sull’economia e sul lavoro si sarebbe abbattuto soprattutto sui soggetti più deboli, con un peso specifico maggiore sulle donne.

I dati sull’occupazione 2020 fotografano l’esattezza di quella previsione. Bisogna rilevare che poco, quasi nulla, è stato fatto per differenziare le misure in modo da attenuare gli effetti della crisi sull’occupazione femminile e sulla partecipazione delle donne alla vita economica.

La richiesta di rendere il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza valutabile nel suo impatto sul divario di genere si è dispersa nel profluvio delle dichiarazione rituali. Di fronte a questa crisi e, soprattutto, all’opportunità di individuarne traiettorie con le quali uscirne, la classe dirigente del paese si sta piegando alle contingenze, con la grave esclusione dal suo perimetro di bisogni nuovi e progressivi. La rappresentanza femminile, non solo nella sua espressione numerica, ne sta pagando un prezzo altissimo.

La seconda ragione riguarda più da vicino il Partito democratico. Siamo nati per cambiare un paese che appariva irriformabile. È stata l’ispirazione che può essere annoverata quale più coraggiosa per attraversare definitivamente il guado della seconda Repubblica. Bisogna avere quello stesso coraggio nel constatare che da forza di cambiamento si è trasfigurato in forza di stabilizzazione.

La stabilità è condizione necessaria per ogni cambiamento. È essa stessa un fine, in un Paese come l’Italia in cui l’instabilità ha un peso intollerabile sul proprio futuro. Ma non può diventare costume, identità sostitutiva, ragione sociale.

Pena l’esclusione di delle questioni di genere e generazionali, che chiedono alla politica nuovi diritti e nuove opportunità. Non parlo di un ritorno alle origini, nulla torna alle origini. Ma se c’è da interpretare la vocazione maggioritaria, deve avvenire senza riduzioni elettoralistiche.

Il Partito Democratico può e deve essere di nuovo maggioritario, nel senso più profondo del termine: un partito la cui ambizione è rappresentare la maggioranza delle istanze e dei bisogni della società italiana, in chiave riformista e riformatrice. In questo senso l’apporto della rappresentanza femminile e di genere diviene imprescindibile. Il resto è polemica, pur significativa, di gruppi dirigenti.

Donne e politica, la sveglia di Pina Picierno al Pd

Di Pina Picierno

Siamo nati per cambiare un paese che appariva irriformabile. Bisogna avere quello stesso coraggio nel constatare che da forza di cambiamento si è trasfigurato in forza di stabilizzazione. La riflessione di Pina Picierno, eurodeputata del Pd

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