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Giovanni Paolo II progettava di visitare Ur, dove il monoteismo era nato. Aveva già fatto visita ai “fratelli maggiori”. Tanta Politica (P maiuscola), presente anche nel viaggio di Francesco. L’Iraq odierno è diverso da allora. Leggiamolo partendo da una prospettiva regionale.

L’Iran ha beneficiato della de-baathizzazione ma non riesce ad essere nume tutelare della maggioranza sciita. La Repubblica Islamica si attribuisce (art.154 Cost.) la missione di supportare gli oppressi (mustaḍʿafūn) contro gli oppressori (mustakbirūn) ovunque nel Mondo ed è in Iraq con questo pretesto.

A questa visione si oppone, fra altri, la Scuola di Najaf, sciita come l’Iran, interprete di una teoria del (diremmo noi) diritto pubblico che legittima l’indipendenza e la Costituzione dell’Iraq. L’ Āyatollāh al Sistani è capo di quella Scuola. Persiano, giurista-teologo politicamente influentissimo nonostante le apparenze, è stato dopo il Presidente Salih il primo ad essere visitato dal Papa. L’Iran non è favorevole.

Francesco si è presentato come rappresentante di una comunità di oppressi, di mustaḍʿafūn appunto, puntando quindi su tema caro allo sciismo che si legittima sul martirio di ‘Ali e della sua famiglia (“sono qui per la Croce”), ma si rivolge a uno sciismo alterativo al Khomeinismo. Sceglie un interlocutore non istituzionale che ostacola un Iran col quale la Santa Sede ha risalenti relazioni diplomatiche.

Le dichiarazioni rilasciate a seguito della visita ne confermano l’importanza. Il punto vero – del viaggio – è la legittimazione dei cristiani a vivere in Iraq godendo di pieni diritti costituzionali: la parte fondamentale della frase è la seconda, data la qualificazione giuridica di “protetti” che i monoteisti (compartecipi imperfetti della rivelazione divina) hanno nel contesto del diritto islamico.

Possono i cristiani tornare se se ne sono andati? Francesco ha visitato quella Ur che Giovanni Paolo non vide, ma lo ha fatto solo dopo aver incassato la opinio positiva di Sistani, una specie di fatwā ridotta ed informale che lo legittima, muove forze nella società e in certi luoghi del potere iracheno e forse mobiliterà voti utili a costruire governi duraturi.

Nella casa ancestrale di Abramo, spesso evocato, ha incontrato i rappresentanti delle minoranze, tutte monoteiste. Menzionando gli Yazīdī ha in realtà parlato di ogni violenza senza fare imbarazzanti riferimenti espliciti al passato. La “fratellanza” fra monoteisti alla quale rimanda intacca un concetto basilare del pensiero islamico, dove il fratello è il musulmano, ovvero il credente nel Dio unico e nella qualità di Maometto come Suo profeta. Anche qui il punto è nella seconda parte della frase.

Francesco intende forse promuovere il concetto di credente come credente nell’unico Dio, senza ulteriori distinzioni? Introdurre un concetto di fratellanza in senso giuridico-religioso fra Cristiani e Musulmani ai primi gioverebbe molto in Oriente. E’ interessante notare come la Comunità di Padre Paolo dall’Oglio, che nel mondo islamico vive, abbia già elaborato una peculiare visione di “Islām”.

I riferimenti al “fare degli altri un noi” sembrano consolidare questa ipotesi. Definire il credente come colui che “guarda il cielo stellato” senza odio, perché il credente “non odia il proprio fratello”, rimanda invece ad altro pensiero universalistico, amato da Giovanni XXIII. La Turchia, indirettamente interessata dalla visita, si esprime in modo inaspettatamente positivo.

L’Ambasciatore turco in Vaticano la saluta come positiva per la stabilità della regione. Ecco il tema: i diversi attori hanno letture diverse della “stabilità” regionale. Ankara vuole perseguirla e si presenta come vittima del settarismo, riferendosi però al PKK. Attribuisce la mancanza di stabilità a quella di autorità. Ed allora il discorso di Francesco, che si presenta in quella regione tanto come nume tutelare quanto come fratello pellegrino, può per Ankara essere utile a riordinare l’Iraq in senso ostile all’Iran con l’ulteriore scissione (fitna) fra lo sciismo khomeinista di Qom da quello iracheno di Najaf.

La narrativa francescana potrebbe poi essere rielaborata per tirarne fuori, a tempo debito, un discorso di unità nazionale irachena funzionale alla Turchia. La famiglia Barzanî, che presiede la Regione del Kurdistan, per quanto storica promotrice dell’indipendenza regionale non può essere ostile ad Ankara (a Teheran sono vicini i Talabani) e vive anche grazie alla sua protezione.

Francesco fa politica per la Chiesa parlando tanto agli iracheni, arabi e kurdi, quanto ai protettori esterni di un Paese che ha perso i quattro quinti dei suoi Cristiani, al fine di renderne possibile il rientro in uno Stato stabile.

Fa politica per ricostruire un tessuto, sociale ma anche politico ed istituzionale, che non faccia sparire le Chiese d’Oriente. Forse getta i semi di una dottrina più universale ed ecumenica di quanto si pensi, andando indietro fino a Giovanni Paolo II, superandolo, e arrivando a Giovanni.

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Il discorso di papa Francesco, che si presenta in Medio Oriente tanto come nume tutelare quanto come fratello pellegrino, può per Ankara essere utile a riordinare l’Iraq in senso ostile all’Iran con l’ulteriore scissione (fitna) fra lo sciismo khomeinista di Qom da quello iracheno di Najaf. L’analisi di Francesco Petrucciano (Geopolitica.info)

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